Lo ammetto: ho pianto due volte per il film di Totti. La prima quando era uscito in sala, a ottobre, gli ultimi posti disponibili al cinema di Porta di Roma. La seconda ieri sera, al CineVillage di Parco Talenti. E tutta la colpa, o forse il merito, è stata di Alex Infascelli.
È sua la firma su “Mi chiamo Francesco Totti”, documentario vincitore del Nastro d’Argento e del David di Donatello. Alex se ne sta in prima fila, con la figlia, a guardare ancora una volta il suo lavoro. Sotto un sole e sotto un cielo che ricorda bene: “I miei tramonti erano questi qua, gli alberi pure. Io andavo a scuola al San Leone Magno, la mia Roma è la Roma del Ponte delle Valli, di Via Somalia. Una Roma lontana da quella di Francesco. Eppure poi sono andato ad abitare lì, via Metronia angolo via Vetulonia”.
Seconda ammissione: dopo il film, in via Vetulonia, ci sono andato io. Non solo, anche in via Lusitania, quella della Scuola Alessandro Manzoni, quella della scena iniziale delle “paperelle”. Una sorta di pellegrinaggio. Perché c’è del sacro nel rapporto tra noi e Totti. E Alex Infascelli ha saputo descrivere anche questo. La giornata dell’ultima partita con la Roma, ad esempio, sono aperte nel documentario dal sottofondo di “Anima Christi”, un inno religioso datato 1370 che da ieri non smette di risuonarmi in testa.
“Totti parla della sua carriera con un distacco di due anni – racconta il regista dal palco del CineVillage – il percorso all’indietro è verso qualcosa finito due secondi prima. Non è un ottantenne, col deambulatore, che raccontava di quando lui 50 anni prima prendeva a calci il pallone. Eppure questo distacco irrisorio ti dà la dimensione di quanto sia stato scioccante, quanto ci abbia segnato l’addio di Francesco. Due anni dopo per noi era come se fossero passati ventisette anni, parliamo proprio di fisica quantistica. Il tempo percepito a Roma è stato quello di due generazioni di gente senza Totti”.
Il tempo, questo è l’altro grande protagonista del documentario. Non poteva essere altrimenti per una pellicola dedicata a una carriera. Ma è un tempo particolare, di un calciatore e di una squadra, ma anche di un uomo, prima di un ragazzino e poi di un padre. Il tempo di un popolo e di una città.
“Volevo fare un film su Roma da sempre e volevo raccontare un certo tipo di Roma. Quella che si percepisce nei ghiaccioli, nelle canzoni di Baglioni, nelle strombazzate su Lungotevere per andare allo stadio. Una Roma figlia degli anni Ottanta e che diventa grande nei Novanta, nonostante Francesco vinca lo scudetto nel 2001 e il mondiale nel 2006. Eppure Francesco è figlio degli anni Ottanta, comincia a giocare a calcio nell’83. Si è formato sentimentalmente in quegli anni, come me. C’era questa cosa che ci rendeva contemporanei. Nonostante io abbia dieci anni di più”.
È grazie a questo rapporto, a questo equilibrio instaurato che Alex Infascelli riesce a raccontare in 105 minuti la carriera di Francesco Totti. Anzi, non la carriera calcistica, ma la parabola eroica, sportiva e insieme umana, del capitano della Roma. “In realtà se io avessi scelto di fare un film sul calcio di Francesco Totti, non sarebbero bastate dieci puntate. Immaginate ingrandire le foto sul display del cellulare con due dita. Quando si fa un documentario si fa la stessa cosa: si sceglie quanto ingrandire, quanto andare dentro. Puoi arrivare fino alla cellula e se dalla cellula vuoi raccontare il maglione di lana, per tornare indietro ci metti una vita intera. Io all’inizio non volevo raccontare il calcio. Cercavo quei momenti di Francesco dove il calcio e la sua vita privata si toccavano. In mezzo però c’erano anche spazi vuoti, calcisticamente importanti, ma che non erano quello che cercavo. Il cucchiaio ad esempio, Paolo Sorrentino mi ha chiamato perché voleva che mettessi il cucchiaio. Ma Francesco me ne ha parlato in due secondi”.
Due secondi, centocinque minuti, quarantaquattro anni, seicentodiciannove partite. I numeri non bastano, non c’è unità di misura per l’amore. E forse neanche per descrivere quello che è successo. Che è successo a Totti e che è successo a noi. Perché “Il tempo è passato, ma pure pe’ voi”.