memoria arresti shoah

Negli archivi del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea non si trovano nomi di persone ebree arrestate nel nostro territorio. Sono più di mille solo a Roma, nessuno invece a Morlupo, a Sacrofano, a Rignano Flaminio, a Riano, dove invece è ambientata la bella storia di Memme Bevilatte, riscoperta e raccontata dal nostro Italo Arcuri. Una storia, però, a cercare bene, c’è. E viene da Faleria.

È una storia che trova conferma negli archivi, tra faldoni impolverati e tra schede online. È una storia di cui forse non sapremmo niente se non fosse per qualche testimone, per qualche fonte diretta, per chi quel giorno era lì. È la storia di Umberto Pace, romano, 64 anni, professione materassaio. E la sua storia me l’ha raccontata un testimone d’eccezione: mia Nonna Palmira, all’epoca una ragazzina di 13 anni che vede davanti a sé l’arresto di un uomo innocente. È il 2 maggio 1944, Umberto Pace, stava tornando da Calcata, dove era andato a comprare qualcosa alla borsa nera per far mangiare la sua famiglia. “La fame, bello de nonna, edera brutta”. La sua famiglia si è già dimezzata: i figli più grandi, Salomone e Armando, sono già stati arrestati, lui è riuscito a nascondersi, con la seconda moglie, Clorinda Esdra, e altri due figli, Salomone e Cesare.

Armando Pace, figlio di Umberto. Fonte Foto: CDEC
Armando Pace, figlio di Umberto. Fonte Foto: CDEC

Nonna era a spasso per Faleria, insieme a Zia Elena, di 7 anni più grande, che sarebbe morta nel Dopoguerra a 22 anni, per meningite, e con Zia Armanda, più grande di 3. “Je stavo sempre ddietro e nun me volevano, perchè edero munella. Stavamo a passeggio lì ppe Santa Nicola, do mo ce sta la Posta. Lì a quello muro do gireno pe Cargata c’era tutto o seguito di’ fascistoni de Faleria, insieme a o’ maresciallo, un panzone che ‘nte dico”. Umberto Pace era diretto a Rignano Flaminio, il treno lo avrebbe riportato a Roma. “Se ne stava guatto guatto, se nascondeva, ma ha tròvo un malincontro. Uno de questi inizia a fa: “Maresciallo, le presento un ebreo!”, lo pia pe’ colletto e lo porta davanti ar carabiniere. “Signore mi lasci andare per cortesia, ho famiglia, mi stanno aspettando”. Gnende da fa, se lo so portato”. La sorella di nonna, la più grande, prova a intervenire. “Edera svegja, io ghj dicevo: zitta! Statte zitta! Se te sentivano te purgavano, te bastonavano. Prima non edera come mo’, prima c’era o fascismo”.

Umberto Pace viene portato al carcere di Regina Coeli, spostato a Fossoli e poi deportato ad Auschwitz, sul convoglio n.13, il 26 giugno 1944. Morirà 4 giorni dopo. La stessa sorte toccò alla sorella, Celeste, e al figlio Armando. L’altro figlio, Salomone, riuscì a sopravvivere.

La scheda di Umberto Pace, arrestato a Faleria. Fonte: CDEC
La scheda di Umberto Pace, arrestato a Faleria. Fonte: CDEC

La storia, a questo punto, si fermerebbe. Per non lasciarla di nuovo nell’oblio, 5 anni fa, decido di affidarla almeno ad un post su Facebook, per fissare nomi, ricordi, emozioni. E lì la storia riparte, trova un altro pezzo. Stavolta, però, bello. Il merito è di Tiziano Valerio Severini e di un’altra nonna, Ascenza. Umberto Pace, infatti, a Faleria non era venuto da solo. Era con un amico, un commerciante di cuoio. “Quando si venne a sapere dell’arresto, una donna del paese, vedendolo nel vicolo di casa sua, chiamò di corsa quest’altro uomo, che si avvicinò pensando di poter barattare qualcosa – scrive Tiziano commentando il mio post – Gli raccontò cosa era successo e lui iniziò a disperarsi, convinto di non avere possibilità di salvezza. Il marito della donna però non ci pensò due volte, lo prese e lo chiuse dentro la cantina, per accompagnarlo di notte a Morolo, dove prese il primo treno riuscendo a tornare a Roma”. I due faleriani si chiamavano Fiorino Salvatori e Florentina Di Mario, genitori di Ascenza. “Nonna mi ha raccontato come, una volta passata la guerra e finiti i rastrellamenti, l’uomo tornò a Faleria per ringraziare chi lo aveva salvato da morte sicura”. Tornò anche il figlio di Umberto, per vedere da vicino i luoghi dell’arresto e colui che aveva denunciato il padre. “Gli fu indicato mentre stava seduto in piazza, a leggere il giornale, ma il giovane si limitò a guardarlo per non compromettersi e scendere agli stessi livelli di un assassino, che non si pentì mai di quanto fatto, tanto che passata la guerra, della famiglia di mia nonna disse tranquillamente che ad averlo saputo, avrebbe fatto deportare anche loro”.

A questo punto la storia termina davvero, ma di certo non si ferma. Torna in circolo, diventa di tutti. Per far sì che anche quando non ci saranno più i nostri archivi umani, i nostri nonni, i nostri vecchi, possa continuare a insegnarci, a ricordare, a riscoprire. Per accendere ancora, e sempre, la luce della memoria.

[Foto in copertina: repertorio, fonte Yad Vashem]

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