Camminare è la dinamo del dubbio, l’antidoto alla tossicità delle certezze che spesso diventano galere. Camminare permette di osservare la strada che si percorre, i canali che spesso la fiancheggiano, le cunette, i fiori selvatici e gli alberi che generano ombra, la terra che cambia. Camminare è stare dentro il cambiamento delle stagioni, primavera dopo primavera, è il movimento che produce l’energia della rinascita fisica e mentale.
“A me non mi beccano”, così diceva un uomo di nome Argenio che da ragazzo incontravo nell’umida osteria-grotta del paese. Non ho mai capito chi lo inseguisse. Ombre, probabilmente, nemici immaginari, il potere assoluto. Argenio su questo è rimasto sempre assai evasivo. Era un tipo solitario che potevi incontrare a tutte le ore per le strade bianche o asfaltate che portavano in pianura. Scriveva poesie che non faceva leggere a nessuno. Aveva un cavallo che chiamava Gino, un mezzosangue baio, robusto e sdegnoso, forse solo un po’ ombroso, con il quale spesso si accompagnava. “Solo io – diceva – conosco ogni metro di queste terre e le sue grotte, i suoi nascondigli. So dove nascondermi. Quando voglio una veduta larga salgo in groppa a Gino. Per il resto vado a piedi e mi aiuta a pensare. Sai quanti chilometri nella mia vita? Quanti per arrivare sulla luna!”
E rideva prendendo un sorso di vino dal bicchiere. Argenio non c’è più, non resta che camminare per le strade del mondo e dentro di sé per arrivare come lui, chissà, alla propria luna.
L’uncinetto e il ricamo
Per l’Infiorata di Capena, da due anni, la Pro Loco invita le donne a creare fiori di merletto rossi e di altri colori. Migliaia di fiori. L’idea ha preso piede e così si è riscoperto l’uncinetto, quel piccolo bastoncino che termina con una rientranza, l’uncino appunto. Con esso si guida il filo e si fanno mirabili creazioni; sferragliando in silenzio prendono forma i merletti che danno vita ad arazzi e centrini, utilizzando la lana, sciarpe e coperte, berretti. Un’arte antica che ha accompagnato la vita delle donne di tutta la terra, dalla Mongolia alle pianure del Danubio, fino ai paesi delle nostre colline. Per secoli il lavoro all’uncinetto è stato il compagno delle donne nei giorni dell’attesa di un ritorno, aspettando un figlio oppure per stare sole con sé, per qualche ora al riparo dalle incombenze e dalle preoccupazioni della vita quotidiana.
Le nonne ci passavano giornate intere sia d’inverno che d’estate e con la scusa di insegnarlo alle nipotine le tenevano a bada, mentre i maschi si scorticavano ginocchia e gomiti giocando a pallone o imitando nei campi di erba alta le battaglie tra gli indiani e i cowboy. Era oltretutto un modo per recuperare rimasugli di gomitoli di lana, anche di colori diversi, magari per fare quadretti e poi unirli fino a realizzare una coperta dalle mille sfumature. Negli ultimi decenni questa pratica si è persa, sostituita dalle serie televisive vecchie e nuove; il tempo del merletto e del paziente lavoro con l’uncinetto è finito tra le cose in disuso. L’iniziativa della Pro Loco di Capena ha acceso però la miccia della rinascita, tanto che hanno risposto con entusiasmo molte donne ed è stato avviato un corso a cui partecipa un gruppo di bambine che produrranno fiori.
L’arte contemporanea
Negli ultimi anni sui muri e nelle piazze dei comuni piccoli e grandi ha fatto irruzione l’arte contemporanea. Grimaldello di rinascita di centri storici abbazie e muri diruti. È un linguaggio artistico che divide, spiazza, non piace a tutti, suscita discussioni. Basterebbe questo però per benedire il suo arrivo. È accaduto di qua e di là dal Tevere. A Monteflavio come a Ponzano Romano, a Capena come a Torrita Tiberina. Ed ecco apparire a Ponzano i due grandi murales di Ligama, o la porta del sogno di un giovanissimo artista cinese piazzata nel vicolo che guarda la grande ansa del Tevere giù nella valle a evocare poesia, e una rassegna stabile curate dal PRAC, organismo appositamente istituito dal compianto sindaco Sergio Pimpinelli che ha realizzato rassegne anche tra le mure della millenaria Abbazia di S. Andrea in Flumine. Un lavoro simile porta avanti da anni il centro culturale della Fondazione Würth a Capena, in quei locali addossati alla struttura produttiva di Scorano hanno esposto artisti di fama internazionale, l’esposizione permanente ma privata a Torrita Tiberina, il Festival della Street Art a Monteflavio.
Caso eclatante quello del Gigante che da almeno sette anni abita a Piazza del Popolo, nel cuore del centro storico di Capena. L’opera donata al comune dall’artista ungherese Hervé Loranth Ervin e realizzata in collaborazione con artisti locali. Il Gigante con il berretto è appoggiato alle antiche mura del borgo e guarda la valle. Per la Giunta e il Consiglio comunale, senza eccezione alcuna, e per il popolo della rete il Gigante va salvato, per la Soprintendenza dell’Etruria Meridionale invece va spostato per ragioni essenzialmente burocratiche. Spingono in questo senso però pochi e sparuti cittadini che hanno in uggia tutto ciò che è arte contemporanea come se l’arte fosse solo l’icona della Madonna o il baldacchino di un Santo. Eppure è un fatto che come ha scritto su il Nuovo Ilaria Riccardi: “l’arte urbana significa rigenerare, creare un’attrazione per il turismo, costruire spazi sociali in cui l’identità e la cultura del paese si materializzano, diventando patrimonio visibile e condivisibile”. Ed è un fatto l’arte antica e quella contemporanea dialogano in modo fertile creando nuova poesia ed emozioni anche lì dove c’era solo un muro sbrecciato.
La Nostalgia
I tre punti di questo ragionare suggeriscono sostanzialmente di recuperare tempo per sé, tempo per guardarsi intorno, pensare, silenzio per osservare, creare. Tenere insieme passato e futuro, non abdicare al solo presente. C’è un filo di nostalgia in queste righe, ma non è quella che si alimenta del famoso e banale “era meglio prima”, per niente. È invece la nostalgia dello “stato di grazia”, la volontà di inseguire e ritrovare quella particolare congiuntura astrale che è capitata a tutti nella vita almeno una volta, per cui tutto si muoveva sullo spartito di una armonia naturale. Quel momento, magari durato pochissimo, dove la banda suonava la musica più bella, stare insieme era un momento di bellezza, camminare insieme e insieme vivere una storia di lavoro, di amicizia, di amore del tutto naturale. Nostalgia dunque come movimento, come cammino, verso quel senso di umanità, trasparenza, onestà intellettuale, tolleranza, che il vento di un presente ruvido ha sbrindellato ma non annichilito.
