Immaginate dei ragazzi reclusi all’interno di una cameretta. Immaginate dei ragazzi costretti a stare seduti di fronte allo schermo di un computer. Immaginate dei ragazzi in solitudine, tutti i giorni, senza la possibilità di relazionarsi con gli altri. Immaginate dei ragazzi spenti, tristi, senza vitalità, estraniati dal mondo esterno. Ora, non immaginateli più, ma prendete coscienza del fatto che questi ragazzi sono esistiti ed esistono nella realtà, in questo periodo storico, pandemico. E sono milioni. Milioni di ragazzi ai quali è stata strappata la possibilità di vivere nella normalità: uscire con gli amici, viaggiare, andare a scuola. Quella stessa scuola sì, piena di problemi, ma che fino a qualche anno fa era un luogo d’incontro, un luogo dove quei milioni di ragazzi avevano la possibilità di relazionarsi, di confrontarsi, di esprimersi.
Una scuola che è stata costretta a chiudere le porte a una miriade di studenti, quegli stessi ragazzi inchiodati allo schermo di un computer dentro quattro mura. Quelle porte, però, da poco si sono riaperte, ma i ragazzi hanno trovato un nuovo mondo scolastico fatto di mascherine, gel igienizzante e distanziamento sociale. Un scuola non più fatta di volti, ma di maschere, o mascherine, se preferite. Mascherine indossate per ore ed ore e distanziamento sociale in un contesto che è fatto soprattutto di volti, di sorrisi, di sguardi, di contatto umano. Che ossimoro, che paradosso.

Eppure, la fine della pandemia non è più un’utopia. E sarà allora che i ragazzi avranno di nuovo un volto, non più coperto dalle variopinte mascherine. Finirà, ma sarà allora che nelle scuole dovrà avvenire una rivoluzione. Perché la scuola di oggi, anno 2022, ha la struttura di fine Ottocento.
Le parole che vengono usate a scuola sono quelle del gergo militare: classe, appello, file. Una scuola totalmente inadeguata, proprio strutturalmente: tenere dei ragazzi per sei ore dietro a un banco significa ignorare che abbiano un corpo e pensare che siano solo delle menti. La scuola, come afferma in un’intervista Alessandro D’Avenia, scrittore e docente, “ha discorporato questi ragazzi, in un mondo che li discorpora costantemente perché i social creano continue proiezioni di immagini che non hanno a che fare con il loro corpo”.

Quella della scuola è una battaglia culturale ma anche politica. Tuttavia, viviamo in un paese le cui risorse raramente vengono indirizzate alla scuola. È il momento, però, che questo accada. D’Avenia, infatti, continua dicendo: “c’è una pandemia gravissima che precede quella in cui siamo: è la pandemia della depressione. Un bambino di sei anni sorride trecento volte al giorno, un adulto, oggi, lo fa undici volte, il che vuol dire che qualcosa non sta funzionando. Sorridere è uno degli elementi che serve a proteggerci anche fisicamente dalle malattie, perché sorridere attiva la dopamina, ma noi lo abbiamo perso, il sorriso. Allora c’è qualcosa di contro-evolutivo. E questo dove accade? Nel posto che per vocazione è fatto perché i ragazzi stiano bene: la scuola”. Il problema sta, dunque, alla base, a partire dal percorso di formazione che gli insegnanti fanno oggi. Vengono valutati ancora con dei concorsi sulle nozioni e nessuno verifica la loro capacità di entrare in relazione con i ragazzi.

Proprio D’Avenia ha scritto un libro, “L’appello”, che vede come protagonista un professore cieco, Omero Romeo, il quale inventa un nuovo modo di fare l’appello (non ottocentesco!): chiedendo ai ragazzi il loro nome e di raccontargli un pezzetto della loro storia, per poi poggiare le mani sui loro volti, non potendoli vedere. E ciò che è incredibile è che questo gesto crea una relazione fra il professore e questi nomi e questi pezzi di storia. Omero Romeo è un professore che riesce a tirare fuori il meglio da questi ragazzi proprio perché è cieco, non nonostante sia cieco.
Nessuno vedeva questi ragazzi, tutti alle prese con le loro fragili vite: una ragazza che nasconde una ferita inconfessabile, un rapper che vive in una “casa famiglia”, una figlia abbandonata, una ragazza alle prese con un disturbo psicologico, un aspirante pugile che sogna di diventare come Rocky, e via dicendo. Nessuno riesce a vederli, né gli altri insegnanti, né i genitori stessi, nonostante tutti loro possano guardare con gli occhi, ma il professore cieco ce l’ha fatta, li ha visti, e non con gli occhi, ma col cuore. E questi ragazzi non sono solo personaggi di finzione, sono persone reali. Perché in ogni classe esistono dei ragazzi con una storia da raccontare, la propria, e c’è davvero bisogno di qualcuno che li ascolti.

Se gli insegnanti iniziassero a fare davvero un appello che dura dieci minuti tutti i giorni, in cui a ogni nome e a ogni storia viene dedicato un minuto, la scuola comincerebbe ad attuare davvero la sua rivoluzione. “Di quanto amore abbiamo bisogno per avere un volto?” è la frase che si trova sulla quarta di copertina del libro. La risposta è “tanto”, i ragazzi hanno bisogno di tanto amore per avere un volto, a prescindere o meno dalle mascherine che indossano. Cominciamo dalla scuola. Cominciamo dall’appello. Solo allora i ragazzi potranno dire veramente “presente!”.
