Sono 335 le vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, a Roma. 335 persone uccise dai tedeschi con la collaborazione dei fascisti, come rappresaglia dell’attentato partigiano di via Rasella, in cui morirono 33 soldati della polizia nazista. 335 storie, 335 vite. Di prigionieri politici, di detenuti comuni, di militari, di ebrei, di civili. Di sportivi. Come quella di Manlio Gelsomini, atleta, medico, partigiano nelle nostre zone, ai comandi del tenente colonnello Siro Bernabò nel Raggruppamento Monte Soratte.

Una storia, la sua, che parte a Roma, nel 1907, dove nasce nella famiglia di Ugo e Sparta Notari. E’ la mamma ad avvicinarlo al mondo della corsa e nel giro di poco tempo Manlio Gelsomini scala le classifiche e inizia a farsi notare. Viene iscritto alla neonata AS Roma, partecipa alle Universiadi di Parigi, si avvicina al rugby e gioca come ala nella SS Lazio, entra nel giro della nazionale italiana e diventa, nel 1928, campione italiano dei 100 metri. Sfiora anche le Olimpiadi, quelle di Los Angeles 1932. Intanto studia, prima al liceo ad Ancona e poi medicina, all’Università La Sapienza di Roma, dove si iscrive ai GUF, i Gruppi Universitari Fascisti. Lo fa convintamente: da quando ha 14 anni ha aderito al fascismo, è capitano nel 79° Battaglione Camicie Nere. I giornali lo esaltano: “Ha fatto i 100 metri in 11 secondi netti. Ecco un atleta che mantiene le promesse e con la volontà può fare ancora meglio“. Intanto l’altra vita di Manlio Gelsomini va avanti: si laurea, diventa medico, lavora prima al Policlinico Umberto I, poi in Piazza dell’Immacolata, a San Lorenzo, uno dei quartieri più resistenti, uno dei quartieri più colpiti dalla dittatura e poi dalla guerra. Qui il Dottor Gelsomini diventa un medico “di tutti”. Come assistente ha il giovane collega Giorgio Piperno, ebreo, amico, che dopo le Leggi Razziali è costretto ad abbandonare il posto. A quel tempo qualcosa aveva già iniziato a mutare nel cuore e nella mente di Manlio Gelsomini. Ma sono anni difficili, scoppia la guerra e i medici servono. Continua a lavorare, viene nominato Capitano Medico, si presenta in corsia tutti i giorni, fino alla mattina del 5 dicembre 1942, quando riceve un provvedimento disciplinare e la sospensione del titolo professionale. Cancellato, radiato, bandito. Qualche voce era di certo arrivata su quel dottore strano, con le idee un po’ diverse, che curava tutti e criticava il regime.

Gelsomini allora non ci pensa due volte. L’8 settembre si presenta a Porta San Paolo, per difendere Roma dai nazisti. Poi, aderisce alla lotta clandestina. Diventa partigiano, con il nome di Ruggero Fiamma e viene mandato nel viterbese, dove guida la Resistenza. “Fu tra i primi ad organizzare un movimento di resistenza armata nella zona dell’alto Lazio – si legge nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare – Instancabile nella cospirazione e nella lotta partigiana; con fermezza d’animo, con l’ascendente personale e il generoso sprezzo della vita, durante i giorni del terrore nazifascista, fu di luminoso esempio ai propri dipendenti, donando fiducia ai timorosi e accrescendo audacia ai forti“. La prima volta che si riunisce la sua banda è a Castel Sant’Elia, con lui c’è anche Don Domenico Antonazzi, poi Gelsomini entra nel Raggruppamento Partigiano “Monte Soratte”. Sono mesi di sabotaggi, di attacchi alle colonne militari naziste, di informazioni raccolte e passate agli Alleati. Gelsomini collabora con il Professor Mariano Buratti, responsabile della Resistenza sui Monti Cimini, ma continua a fare la spola con la capitale. “Corre dalle montagne a Roma e da Roma alle montagne, corre più veloce di tutti come quando scendeva in pista“. Si arriva così al dicembre 1943, a una cena. Intorno al tavolo tanti partigiani, Gelsomini, Buratti, poi lui: Mario Pistolini, romano, residente a Rio De Janeiro, dice di essere un produttore cinematografico, scappa perché accusato di truffa. Non lo sanno, ma è una spia delle SS. Sarà lui a vendere Manlio Gelsomini ai tedeschi, il 13 gennaio 1944. Arrestato, viene portato nel carcere di Via Tasso. “Non sono nato per una vita facile, io. Amo l’imprevisto e nell’assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero… Vado verso l’ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto” scrive nel suo diario conservato al Museo Storico della Liberazione di Roma. Poi ancora: “Anche il mio fisico soffre molto. Il cibo è insufficiente e sono denutrito e stanco. Ho fame, sempre fame. Non ho quasi più la facoltà di pensare“.

Saranno 76 giorni di inumane, indicibili torture. Poi la fine, il 24 marzo, alle Fosse Ardeatine. Dove tra i tanti a morire ci sarà anche lui: Manlio Gelsomini, il dottore partigiano, il più veloce di Roma. L’atleta resistente.
