Storia e vicissitudini delle suore di Santa Croce, il monastero di clausura che sorgeva sul monte Soratte, a Sant’Oreste.

Silenzio e preghiere, lavoro e contemplazione.

È una pacata oscillazione di eterno ritorno, la vita in un monastero di clausura, dall’alba al tramonto e nei giorni a venire.

Alte mura e grate di ferro precludono alle suore la vista del mondo, mentre la vita è scandita da pensieri di fede.

Le donne che oggi in Italia imboccano la strada monacale lo fanno per lo più per seguire una vocazione; c’è stato un tempo, però, in cui alcune ragazze decidevano di indossare il velo (fino alla scelta più estrema della vita claustrale) anche per sfuggire al penoso disagio della propria condizione sociale.

Nel XVI secolo a Sant’Oreste nacque un monastero di clausura, grazie al desiderio di tre zitelle del paese: Maria Piacenti, Veronica Lorenzi e Fulvia Zozi.

Il monastero di Santa Croce fu un luogo destinato a lasciare un segno indelebile nella storia del piccolo borgo, allora assoggettato all’abbazia delle Tre Fontane di Roma.

La stessa comunità di Sant’Oreste si impegnò a favorire l’apertura della struttura, a patto che al suo interno alcuni posti fossero riservati alle ragazze del luogo come educande. Perché se la vita monastica rimase comunque una prerogativa per poche, nel corso dei secoli molte giovani santorestesi trovarono nel monastero la possibilità di ricevere un’istruzione.

Nel monastero di Santa Croce la vita era scandita da regole ferree, improntate sull’osservanza del silenzo e sull’alternanza tra lavoro e preghiera. C’erano gli orti da coltivare, i pasti da preparare, la legna da tagliare e il tutto avveniva in uno scollamento quasi totale dal mondo esterno.

Diciamo “quasi” perché la più controversa caratteristica del monastero di Santa Croce fu proprio la difficoltà di mantenere una reale separazione tra le suore e la società civile: parentele e amicizie si intrecciavano nel piccolo borgo, mantenendo vivo il legame con le giovani santorestesi entrate in convento.

Nonostante questa anomalia, più volte rilevata e criticata dall’abate commendatario, le donne in solitudine ci stavano davvero.

La sacrestia era posta in basso rispetto alla navata della chiesa e permetteva alle suore di assistere alla messa senza essere viste. Una ruota di legno incastonata nel muro favoriva il rito della comunione nel più totale riserbo: il prete non vedeva le suore, si limitava a somministrare l’eucarestia stando in una stanza attigua e passando i paramenti attraverso di essa; anche la confessione avveniva attraverso una feritoia ricavata nella parete, escludendo il seppur minimo sguardo tra monache e prete.

Oggi l’ex monastero di Santa Croce ospita gli uffici del Comune di Sant’Oreste, ma alcuni elementi della struttura sono stati preservati così come erano un tempo. La sacrestia racconta ancora le ore di concentrazione e preghiera, la bellissima vista sulla valle del Tevere parla invece di isolamento e distanza. Nei corridoi che si intrecciano lungo il palazzo riecheggia l’eco di lunghi e profondi silenzi, interrotti probabilmente solo dal suono dei passi delle novizie e della madre badessa.

E le mura, alte e possenti, stanno lì a delimitare un’area di pochi metri quadrati entro la quale vivere un’intera esistenza, volta però a esplorare i più ampi spazi che governano l’anima.

Perché la clausura oggi, è bene sottolinearlo, per alcune donne rappresenta uno dei tanti risvolti del femminismo contemporaneo: significa poter decidere consapevolmente del proprio corpo e del proprio percorso su questa terra.

È la storia di una femminilità intensa e velata, mai taciuta; una femminilità declinata nei confronti di un dio.

È un’ascesa costante verso di lui, fino ad una fusione profonda che mette al riparo dal vuoto della solitudine globale.

E se nella lunga storia di Santa Croce molte donne indossarono il velo come alternativa ad un’esistenza di stenti, oggi non si può più distogliere lo sguardo dall’estrema consapevolezza che c’è alla base di questa profonda scelta di vita.

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