di Massimo Carrano

Non ho una vera passione calcistica, tifo da quando ero bambino per una squadra della quale ormai odio buona parte dei tifosi. Raramente guardo le partite alla tv e rarissimamente vado allo stadio. Non di meno amo il calcio e, anche se non c’entra nulla, nutro una morbosa curiosità per i fenomeni psichici ed antropologici che sottendono i comportamenti del tifo.

Sabato però, indotto da un buon amico, mi sono recato in un bar di periferia dove, al costo di una consumazione, avrei potuto assistere alla partita clou della settimana: la mia squadra contro la più blasonata di tutte.
Si capiva che, per i proprietari del locale, l’evento era atteso in totale assenza di trepidazione; i tavolini non erano preparati, fino ad un minuto prima del collegamento una musica orribile riempiva la stanca vacuità delle due bariste, che intente al cambio turno, lungi dall’abbassare il volume di quella immondizia, si adattavano a comunicare tra loro a voce altissima, in quello sciatto romanesco gutturale che, da ancora prima delle buche della Raggi, testimonia la definitiva decadenza dell’impero.

Fino ad poco prima del fischio di inizio, a guardare lo schermo siamo soli, il mio amico ed io poi, ai primi calci vengono a sedersi nei tavoli vicino nell’ordine, una coppia di vegliardi, con un ragazzino dai tratti magrebini in qualche modo loro parente e, poco dietro, due uomini piccoli, sudamericani di faccia india e affaticata, vicino a due birre come si deve, timidissimi, parlano tra loro sommessamente, quasi si sentissero abusivi a stare lì.

Il divenire degli eventi sciorina promesse: la mia squadra oppone una qualche fierezza alla stapotenza da copione degli avversari e l’arbitro tiene alta l’attenzione con una direzione di gara del tutto originale. Dagli altoparlanti posti di fianco ai 40 pollici dello schermo giunge la voce finto-competente dei telecronisti e il suono di quello stadio dal quale, per motivi differenti, tutti i presenti nel bar avevano evitato di andare, i vegliardi per via dell’età, il mio amico ed io per via che allo stadio ci stanno troppi fascisti, ed i sudamericani per via del costo del biglietto.

Si familiarizza piano piano scambiandosi opinioni sui verdetti arbitrali, sulla stanchezza dei giocatori, sui migliori ed i peggiori gesti tecnici… quando, ad uno dei gol dei miei, esulto e mi giro per battere il cinque al sudamericano dietro di me, lo trovo sorpreso, come se non si aspettasse un gesto amichevole poi, finalmente, condivide un sorriso. Ad un certo punto la mia squadra sbaglia un rigore, il barista che aveva mantenuto un profilo neutrale e silenzioso come la Svizzera, esulta smascherando ad un tempo l’appartenenza ad altro tifo cittadino e la sua predispone spirituale al malaugurio; quando alla fine, imprevedibilmente, la mia piccola squadra risulta aver battuto i campioni, il primo “pijatelandercùlo” è per lui.

Finisce la partita ci alziamo e lo sguardo mi va sul bastone del vecchio adornato come fosse l’oggetto rituale di uno sciamano suburbano. Mi racconta che anche lui, come il barista, tifa altrove ed è venuto lì solo per la passione del nipote; dice che però si è divertito e che gli è piaciuto veder perdere la squadra dei potenti; con l’indice nodoso indica fiero il distintivo dei comunisti attaccato al suo bastone e la prima medaglia del piccolo, vinta sul tatami del judo qualche tempo prima.

La TV si spegne, riparte la musica infame. Con tempi differenti tutti lasciano il bar, non siamo diventati amici, continuiamo a non sapere nulla gli uni degli altri, ma siamo stati vicini e, al prezzo di una birra non si può chiedere di più alla sera.

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