Temperature che aumentano gradualmente, ghiacciai che si sciolgono ed ecosistemi che mutano drasticamente sono il segno evidente di un pianeta che sta cambiando atteggiamento. Non che la terra abbia una coscienza per cui risponda ad un torto subito ma, in quanto sistema chiuso, reagisce a qualsiasi disequilibrio su larga scala a prescindere da chi lo innesca. Oggi, grazie al lavoro di scienziati e divulgatori, si sa molto sul riscaldamento globale: i fattori che lo innescano, le conseguenze che ha sulla vita di tutti, ma soprattutto, si sa molto sulle strategie da adottare per rallentare questa metaforica palla di neve che, con il tempo, è diventata sempre più pesante e veloce. Sul piano scientifico la soluzione è semplicissima: basta ridurre l’emissione dei gas serra. Sul piano sociale, invece, non c’è scelta più complessa. Praticamente ogni azione, processo o attività per esistere genera anidride carbonica, dalla respirazione corporea alla produzione di cibo, passando per ogni forma di trasporto di cose e persone. È proprio questo il problema. L’emissione di anidride carbonica è così intrinsecamente connessa al tessuto sociale del pianeta che la si può considerare come la prova lampante dell’intenso processo di evoluzione che ha subito la civiltà umana in questi ultimi secoli. Una crescita talmente veloce da richiedere una mole di energia così grande che solo le fonti fossili potevano soddisfare, restituendosi all’ecosistema planetario, però, sotto forma di anidride carbonica. Tuttavia, in un periodo storico di consapevolezza e mutamento come quello che si osserva oggi, non è possibile pensare di rimanere ancorati ad una concezione di sviluppo antiquata, è invece necessario rielaborare ed aggiornare tutti i processi tecnologici in un’ottica più pulita ed intelligente.
A tal proposito, come risultato del climate change act, il sistema sanitario britannico (NHS) è legalmente obbligato a ridurre dell’80%, entro il 2050, le proprie emissioni di CO2, rispetto ai livelli del 1990. Questo graduale piano di decarbonizzazione passerebbe per un taglio delle emissioni di anidride carbonica del 34% entro il 2020 fino a raggiungere, nei 30 anni successivi, la soglia prefissata. È fondamentale che tutti i paesi stabiliscano degli obietti di taglio della CO2 emessa in modo tale da dare il tempo alle singole particelle che compongono il tessuto socio-economico di adattarsi alle soglie prestabilite.
Tuttavia, per poter attuare un processo globale di snellimento delle emissioni è necessario conoscere la quota di CO2 prodotta, direttamente o indirettamente, dai singoli processi e dai singoli servizi erogati nei settori presi in esame.
In un report del Centre for Sustainable Healthcare (Public Health England), relativo ai servizi dentali Britannici, sono state misurate le emissioni di CO2 associate alle più comuni procedure dentali, così da poter visualizzare quali fossero i relativi contributi all’inquinamento ambientale. Da questo studio è emerso che la procedura più impattante è rappresentata dalle visite di controllo che, per via dell’alta frequenza con cui vengono eseguite, rappresentano il 27,1% della CO2 totale emessa. Sempre per via della cadenza con cui viene effettuata, la pulizia dentale è responsabile del 13,4% delle emissioni, seguita dalle amalgame (9,7%), dalle otturazioni con compositi (9,5%), dalle dentiere (8,6%), dalle radiografie (6,4%) e, con il 3,5% di impatto, dalle estrazioni. Come si può notare da questi dati le procedure maggiormente inquinanti sono anche quelle più frequentemente eseguite negli studi dentali, ed effettivamente non c’è da stupirsi. La frequenza di una procedura è un fattore determinante nella carbon footprint e, laddove non sia possibile diminuirne la cadenza di esecuzione, è necessario snellire quanto più possibile la relativa emissione di gas serra.
Se presi nel complesso, i servizi dentali primari immettono in atmosfera 676 tonnellate di CO2 annue (tCO2e), circa il 3% della carbon footprint totale dei servizi del Sistema Sanitario Britannico ed equivalenti a 50.000 voli dal Regno Unito ad Hong Kong.
Tuttavia, per quanto interessanti, questi dati non rappresentano un vero e proprio contributo riguardo le misure adottabili per la decarbonizzazione poiché non evidenziano i margini migliorabili ma solo il peso effettivo di ogni procedura dentale. Per capire cosa generi, all’interno dei servizi dentali forniti dal Sistema Sanitario Nazionale, maggiori emissioni di gas serra è necessario analizzare tutti i processi secondari che ruotano attorno alle singole procedure dentali e che sono alla base del funzionamento dell’intero ecosistema dei servizi dentali. Perciò, in questo report, è stata analizzata la carbon footprint delle principali attività correlate alla pratica dentale. Tali attività, ognuna con un proprio impatto ambientale, sono necessarie per lo svolgersi della pratica dentale e per mantenere attiva questa porzione del Sistema Sanitario Nazionale.
Dai dati presentati nel report è emerso che il maggior contributo alle emissioni di CO2 è rappresentato dalla categoria dei trasporti: con un 31,1%, rispetto alla carbon footprint totale dei servizi dentali (nell’anno 2013/2014), causato dagli spostamenti dei pazienti, un 30,3% rappresentato dagli spostamenti pendolari del personale e da un 3,1% per i viaggi di lavoro dello staff sanitario. È proprio da questi numeri che emerge uno dei settori che maggiormente contribuisce all’inquinamento ambientale ma che allo stesso tempo ha un grande margine di miglioramento: il settore dei trasporti.
Ad ogni modo, per quanto preponderanti, i trasporti non sono i soli ad emettere gas serra; infatti, un altro 19% è ricoperto dalla somma dei costi amministrativi, della gestione dei laboratori e dei materiali. Invece, differentemente da quanto ci si potrebbe aspettare, il consumo di gas ed elettricità riveste un ruolo secondario nelle emissioni, andando a contribuire rispettivamente per il 7,6% ed il 7,7%, coprendo una fetta totale pari al 15,3%. Infine, in misura assolutamente marginale, contribuisco il consumo d’acqua (0,1%), gli scarti (0,2%) ed il rilascio di ossido nitroso (0,9%) che, seppur non implica un rilascio di CO2, esso stesso è un gas serra ben 300 volte più potente.
Insomma, questo report fornisce una serie di dati fondamentali per poter lavorare al piano di decarbonizzazione e, come suggerito dagli autori, pone l’attenzione sulle abitudini radicate nella pratica clinica e nel modo in cui viene vissuta dai pazienti.
Attualmente, i viaggi effettuati per andare dal dentista non sono ottimizzati al fine di ridurne il numero complessivo e ogni famiglia, per via degli impegni individuali, predilige fissare appuntamenti separati, moltiplicando quindi la mole di emissioni inquinanti.
Questa è la conseguenza di una mancanza di consapevolezza sugli effetti prodotti da questo tipo di abitudini e sul peso che essi esercitano sul bilancio complessivo di anidride carbonica. In questo settore il cambiamento dovrebbe necessariamente partire dagli studi dentistici che, attraverso il contatto diretto con i pazienti, spingano quest’ultimi ad accorpare in un unico spostamento tutta la famiglia o, ove possibile, prediligere mezzi di trasporto ecologici. Inoltre, questo concetto deve essere applicato anche alle procedure dentali che, in alcuni casi, possono essere accorpate ed eseguite all’interno della stessa seduta, limitando di conseguenza i numeri degli spostamenti da parte dei pazienti.
Insomma, nel complesso il profilo di emissioni di CO2 descritto e presentato in questo report è fondamentale per poter lavorare sul piano di decarbonizzazione richiesto dal Regno Unito ma, tale cambiamento, necessita di uno sforzo organizzativo da parte dei dentisti e una maggior flessibilità ed efficienza da parte dei pazienti per poter gettare le basi di una società sempre più pulita e sostenibile.
