Stabat Mater, il lungometraggio tratto da un testo di Grazia Frisina, autrice toscana, che il regista Giuseppe Tesi ha adattato al linguaggio cinematografico e che è stato interpretato dai detenuti della Casa Circondariale di Pistoia insieme agli attori professionisti Melania Giglio e Giuseppe Sartori narra di carcere, reclusi e consapevolezza nei confronti di una realtà che la società si accontenta di conoscere superficialmente o di giudicare, in maniera talvolta indebita. Il film, realizzato dall’associazione culturale Teatro Electra di Pistoia si rende attualmente significativo alla luce dei recenti dibattiti sul sistema carcerario. L’arte, in questa ambito, diviene efficace strumento di denuncia e possibilità di riscatto nella sua funzione educativa.

Una scena tratta dal Stabat Mater.

L’articolo 27 della Costituzione Italiana argomenta infatti che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Recenti e numerosi fatti di cronaca invitano a riflettere sulla congruenza di quanto espresso in termini di legge e quanto accade all’interno del sistema complesso delle carceri italiane. Il tema della riforma della giustizia in Italia rappresenta una delle richieste più insistenti che l’Europa pone allo Stato italiano. L’urgenza è dettata dal garantire processi equi fra certezze da un lato e umanità dall’altro. Nei trattamenti contrari al senso di umanità è significativo riferirsi a chi il reato lo ha commesso ma anche a chi nelle carceri ci lavora con grande investimento professionale e umano.

Stabat Mater è, letteralmente, una meditazione sulle sofferenze di Maria, Madre di Gesù. Nell’esperienza artistica descritta essa diviene riflessione sulla genesi del dolore. L’invito puntuale che Giuseppe Tesi rivolge non è quello di indagare meramente sulle condizioni dei detenuti protagonisti ma di scoprire i solchi delle loro ferite prima ancora che diventino le piaghe amorevolmente curate dalla Madre. Scoprire nelle riprese i volti dei detenuti e ascoltare le loro testimonianze di vita non serve a ragionare su ciò che essi stessi raccontano ma inchioda, tutti cristi alla stessa croce, al processo determina l’inizio di un percorso di dolore. Che possibilità stanno offrendo le istituzioni, oggi e concretamente, allo strazio di chi porta sulle spalle una estrema sofferenza?

Una delle scene più significative del lungometraggio.

Il tempo e l’acqua sono due elementi da evidenziare rispetto alla narrazione di questo film documentario. Il tempo nel suo scorrere incredibilmente veloce e lento. Il tempo della cura della madre verso tutti i figli. Il tempo della redenzione e della narrazione per voce stessa dei protagonisti e con i colori confusi di giorni sempre uguali ai quali l’arte restituisce la dignità. Da sottolineare, ad esempio, quale grande regalo si sono concessi reciprocamente tutti gli “attori” coinvolti nella riuscita di questo complesso lavoro. E poi l’acqua tra credenze, scaramanzia e speranza. L’acqua elemento primordiale che porta nascita e purificazione. Ma anche acqua che sfida come provocano le primissime immagini del film che ipnotizzano grazie agli occhi di Giuseppe Sartori, al suo tumultuoso narrare.  Acqua che tutto porta via come le ultime immagini alle quali il regista affida il commiato dalla sua opera.

Lo scorso 23 luglio su iniziativa della Senatrice Paola Binetti il film è stato proiettato in Senato, presso la Sala Zuccari, in occasione del convegno dedicato proprio alla riforma della giustizia e delle carceri.

 

Da segnalare, per tutti coloro che fossero interessati, che il 10 dicembre presso il Teatro Bolognini Pistoia il lungometraggio verrà proiettato agli Istituti Superiori con presentazione di un libro sul percorso finanziato dalla Farcom Pistoia.

 

 

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