PARASITE E IL VUOTO

Negli anni sessanta al cinema Eden, che era di prima visione, la mia famiglia non si poteva permettere di andare; non che fossimo poveri, eravamo semmai “impoveriti” dall’impegno dei miei genitori di diventare, primi di entrambe le stirpi, proprietari di una casa.
Ieri invece, più di mezzo secolo dopo, al cinema Eden ho potuto entrare per andare a vedere “Parasite”.
Parasite è una pellicola inutilmente coreana, nel senso che, a parte gli occhi a mandorla, il colore degli spaghetti ed il nome del regista che assomiglia a quello di un sex toy acquistato su Amazon, la narrazione potrebbe avere luogo in qualsiasi città del mondo occidentale.

Nel film, una allegra famiglia di miserabili prova, per mezzo di un comune, autentico talento attoriale unito a mezze, individuali competenze, ad incistarsi nella vita di una famiglia ricchissima di soldi e di nevrosi.

Una volta raggiunto l’obiettivo, i quattro (genitori e due figli) non provano neanche a migliorare la propria condizione, magari lasciando il fetido seminterrato dove vivono; al contrario celebrano il nuovo benessere con una comune sbronza, epocale e distruttiva, che sancirà l’inizio della loro fine. Sembrerebbe un moderno “miseria e nobiltà” ma non è così.I poveri del racconto non assomigliano ai miei genitori , post bellici morti di fame, che almeno potettero aspirare e sperare, dando così un senso alla parola “risparmio”. I poveri descritti nel film sono privi di speranza, privi di senso (“l’unico piano di successo è non avere un piano”dice il capofamiglia). I poveri narrati qui, non sapendo più essere “classe”, albergano inconsapevoli una categoria che lungi dall’essere rilevantemente politica, si riduce ad essere trascurabilmente antropologica.

La miseria senza speranza in questo tempo senza speranze, non prova nemmeno ad ascendere la scala sociale, non si arrampica, non trova motivo per “impoverirsi” investendo, magari in una casa migliore, dove andare “un giorno” ad abitare. Nel terzo millennio I poveri 2.0 non aspirano ad alcuna giustizia sociale né pretendono di diventare ricchi; orientano il loro sforzo verso il “sembrare” ricchi, pretendono dei ricchi lo stesso vestito, lo stesso cibo, lo stesso disagio mentale, disposti a continuare a portarsi addosso quel disperato senso di precarietà e quell’insopportabile odore di seminterrato che solo loro riescono a non avvertire.

I poveri, come i ricchi, di questo racconto siamo noi. Capisco ora perché i miei conoscenti si siano tanto guelfoghibellinizzati nei giudizi: nel grottesco di un film apparentemente insulso, anzi proprio nell’essere insulso di un film grottesco alberga, subliminale, una manciata di fotogrammi del nostro vuoto orrifico.

Massimo Carrano

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