“Svegliami quando arrivano” disse mio padre spegnendo l'”abbagiúr” sul comodino e voltandosi verso mia madre che già dormiva. Mio fratello nell’altra stanza sognava ormai da qualche ora, come si confà ad ogni bimbo undicenne dopo una giornata di giochi sfrenati.

Restai da solo al cospetto del vetro dello schermo, dentro al quale l’imberbe apparato comunicativo della TV, forte dei suoi quindici anni di esistenza, organizzava l’attesa di tutti per l’avvenimento del secolo.
Riguardo al pericolo dell’abbiocco mi ero premunito, concedendomi una lunga dormita pomeridiana, ed ora ero “pronto!”, come la piccola vedetta lombarda, a sorvegliare che l’evento non accadesse in assenza di testimoni di famiglia.

In verità un fatto importante era già avvenuto, verso le 22,00 l’Apollo11 era “allunato” (quanto era importante per noi tutti quel nuovo verbo) ed ora gli occhi del mondo aspettavano di proiettare i propri sogni nei piedi del primo uomo che sarebbe sceso a toccare quel suolo.

Così, nella tarda sera del 20 luglio, in mancanza di poppecòrne (pop corn, tradotto per i nati fuori dai perimetri imperiali), ruminavo pensieri: Che estate era quella!
Da un mese la mia vita era cambiata ed ero inquieto, avevo finito le medie ed avevo lasciato la mia strada ed i miei compagni cambiando casa; i miei genitori, da una parte fuggendo il crescendo rossiniano degli affitti di Prati e, dall’altra, inseguendo il sogno, piccolo ma borghese, dell’alloggio di proprietà, avevano acquistato tre stanze in periferia ed ora stavamo lì.

Non solo anni di natali senza giocattoli, lo sforzo per racimolare l’anticipo per l’acquisto e poi i soldi per il trasloco, si erano mangiati una serie di benefit importanti per un bambino, comprese le vacanze estive di quell’anno.
Oltre tutto nel nuovo quartiere i potenziali nuovi amici erano ragazzini tosti e già nei primi giorni dall’arrivo avevo dovuto difendere me e mio fratello da alcune tentativi di scherno. Per fortuna io menavo e lui giocava bene al calcio.

Il disperato russare di mio padre rendeva difficile la gestione del volume della TV, così per tenerlo basso e non svegliare la mamma, mi ero accostato allo schermo da dodici pollici, sistemando la sedia in fondo al lettone, vicino ai piedi di papà. Aveva bei piedi papà, sempre profumati soprattutto adesso che nella nuova casa avevamo la vasca in cui poterci lavare più spesso di prima. Sopra ai piedi c’erano le gambe, belle anche quelle, ingiuriate però dai segni delle schegge della bomba di Scutari; in tono col tema della serata, i buchi scuri delle cicatrici assomigliavano al suolo lunare…ogni volta che le guardavo tentavo, senza successo, di immaginare mio padre a terra, sanguinante che…

Ma adesso basta, la guerra non solo era finita ma i ricordi che la riguardavano da quella sera sarebbero stati meno vivi, avrebbero fatto meno male, ne ero sicuro. Stavamo per arrivare sulla Luna e gli uomini avrebbero trovato stupido perdere tempo in scialbe questioni di confine!.

Passarono molte ore dall’allunaggio della navicella e Tito Stagno aveva via via finito prima gli argomenti di cronaca, poi quelli scientifici; ma la televisione, che aveva solo quindici anni ma già la sapeva lunga, aveva previsto il probabile calo della palpebra dei suoi utenti, e si era peritata di fornire un parterre di intrattenitori divisi tra opinionisti, cantanti e comici. Di tutti costoro ricordo solo un esilarante sketch di Oreste Lionello che vestito da matador inscenò l’inedita pantomima in cui il torero tentava di vendere al toro la stoffa della muleta; “nci piace questo drappo?…ed io giù a ridere, sforzandomi di non disturbare i miei genitori.

Verso le tre del mattino, i pur tenaci bastioni della mia attenzione cominciarono a sentire forte l’assedio del sonno, combattevo aiutandomi con sporadici pellegrinaggi verso l’acqua frizzina, unica bevanda di lusso nel nuovissimo frigorifero, e ripetute sciacquate di faccia nel nuovissimo bagno della nuova casa.

So’ arrivati o no?ogni tanto farfugliava il genitore in uno sprazzo di veglia; “so’ arivati ma nu so’ scesi” rispondevo io sussurrando forte, “angòra!? e che cazz’!?” replicava lui nella calata partenopea che nel dormiveglia non riusciva a controllare; poi tornava a russare.

Così, com’è e come non è, verso le quattro, forse le cinque, nel composto tripudio vocale di Tito, con lo starnazzante contributo timbrico di Ruggero, ‘sto cazzo di portello, finalmente, si aprì e cominciò la discesa della scaletta; svegliai mio padre e mia madre che proprio quel giorno aveva compiuto 44 anni, mi inorgoglirono con la sincera meraviglia per la mia tenacia di ometto, si sedettero sul letto, accesero simultaneamente le loro sigarette e tutti e tre, in silenzio, conquistammo la Luna, insieme al resto dell’umanità.

S’era fatto il 21 luglio.

Massimo Carrano

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