di Maria Vittoria Massarin

I nostri problemi sono amplificati dai social, nascono da essi o si manifestano in essi? Per molti la risposta giusta sarà solo una delle tre, molto probabilmente però la verità è in una combinazione delle tre alternative. Noi uomini abbiamo da sempre fame di conflitto, di confronto, di conoscenza, e talvolta anche di complicarci la vita. Ed i social sono l’antidoto apparente, come un effetto placebo non generalizzato. Spesso infatti si pensa che i social possano appagare queste nostre necessità e si riversa tutto, non nascondendo nulla, su una pagina virtuale, scambiandola quasi per un’estensione di noi stessi, della nostra parte pensante. La verità però è ben diversa, perché una pagina di Facebook, Instagram o Twitter, non conterrà mai tutto ma avrà sempre un potere – seppur implicito – su di noi. 

I social media hanno reso infatti impossibile il cambiamento evolutivo della persona nella sfera del pensiero astratto. È da un po’ di tempo a questa parte infatti, che le piattaforme online, di qualsiasi tipo esse siano, condannano chiunque ne faccia uso ad una pena dalla quale difficilmente si sfugge. Non che agli albori non lo facessero, semplicemente all’inizio era una delle tante funzioni di cui gli utenti potevano avvalersi consciamente: esempio ne sono coloro che non si sentivano accettati dalla realtà che li circondava e avevano bisogno di scappare in un rifugio che li accettasse così com’erano. Adesso invece questa funzione accessoria è diventata un effetto collaterale inevitabile dell’iscrizione ad un qualsiasi social. 

Tutte le piattaforme più usate costringono alla cristallizzazione dei caratteri distintivi di un individuo, se non nell’idea che ha di stesso, nell’immaginario di chi lo segue. I tratti cristallizzati interessano molteplici aspetti: da quello fisico a quello emotivo. Così come un taglio di capelli può far rientrare una persona in una categoria piuttosto che in un’altra, allo stesso modo un post condiviso può essere male interpretato e sortire il medesimo effetto. 

È innegabile che i social abbiamo un’infinità di aspetti positivi, ma è altrettanto lampante che l’influenza che esercitano sul nostro modo di pensare – e quindi di agire – sta operando come agente de-personalizzante, sia per chi pubblica che per chi recepisce. È chiaro che in questo discorso sia necessario distinguere chi usa i social in modo quasi distaccato e chi dipende da essi. Essendo il mondo di oggi in continua evoluzione però, è facilmente prevedibile che presto sarà la seconda categoria a prevalere sulla prima.

In aumento gli “Hikikomori” in Italia

Hikikomori, termine utilizzato per definire i giovani che si isolano in casa trovando rifugio in Internet.

Sono giovani che smettono di andare a scuola, si ritirano in casa, nella propria camera e interagiscono solo con il computer o la tv. Il nome deriva dal termine giapponese che significa “stare in disparte”. Proprio il Giappone è il paese in cui è iniziato il fenomeno, che però ora riguarda tutto il mondo, compresa l’Italia: si stima che nel nostro Paese siano ormai 150mila i giovani in Italia chiusi in casa a interagire solo con il mondo virtuale.

Al punto che il Ministero della Sanità sta attuando terapie apposite per provare a curarli e che ormai da due anni è attiva un associazione di genitori che cerca di stimolare le istituzioni a intervenire.

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