Nel 1327 Paolo D’Angelo come da sua volontà testamentaria, donò i suoi averi, il palazzo e la vigna all’ordine delle suore di Santa Chiara. Nel 1328 il cardinale protettore dell’Ordine dei Minori e delle Clarisse, concede alle sorelle del monastero di Sant’Agnese di trasferirsi in città. Le Clarisse rimasero in questo luogo fino al 20 agosto 1428, quando, con bolla papale fu disposta la fusione del monastero a quello di San Paolo del Favarone a causa delle guerre e pestilenze che rendevano pericolosa la vita dei monasteri situati fuori dalle mura cittadine. Il 23 febbraio del 1911 la comunità ritornò a far parte del Secondo Ordine Francescano.
Abbiamo cercato di capire come sono scandite le giornate delle suore di clausura ed il loro ruolo all’interno della Chiesa, attraverso le parole di Suor Speranza.

Le è costato abbandonare la vita mondana?

Potrei rispondere in due modi, a seconda di quello che vogliamo intendere con ‘vita mondana’.
Se questa significa la vita che conducevo a casa, a scuola, al lavoro, con gli amici, l’andare in giro, certo che mi è costato! Lasciare un modo di vivere per abbracciarne un altro non è indolore e non è una scelta che si improvvisa. Ogni scelta porta con sé delle cose che si ricevono e altre che si lasciano. E il lasciare persone e abitudini è normale che costi.
Però c’è anche un altro modo in cui si può intendere quel ‘vita mondana’. Vorrei innanzitutto precisare la differenza tra ciò che è mondano e il mondo: il mondo è cosa buona, come ci ricorda il libro della Genesi nello sguardo di Dio sulla creazione. La mondanità invece no. A partire dalla Parola, Papa Francesco ci ricorda che questa c’è anche nella chiesa, per cui non basta ‘lasciare’ il mondo per lasciarsi alle spalle la mondanità che è quella ricerca di prestigio, di potere, ricchezza, vanità, il voler avere sempre ragione, a volte fino ad arrivare in maniera più o meno esplicita, a fare la guerra in nome della verità…
Al di là delle persone, delle cose, la fatica profonda è lasciare la propria ‘mondanità’ nel senso del proprio egoismo, dei propri schemi, delle proprie vedute, delle proprie strategie, dei propri obiettivi e sicurezze per imparare a stare nelle mani provvidenti di un Padre che si prende cura di te. E questo è anche l’insegnamento di s. Francesco e s. Chiara nel loro decidere di seguire Gesù, povero e crocifisso. Questo è un abbandono che costa e che tocca in profondità.

Le persone che affidano a voi le loro preghiere, cosa cercano?

In questi anni di monastero mi sono resa conto che cercano innanzitutto ascolto, accoglienza, qualcuno che si ponga accanto, che condivida le loro preoccupazioni, il dolore, la sofferenza, i desideri, la gioia. Nel mondo di oggi c’è tanta ‘condivisione’ che per la maggior parte è virtuale, ma manca l’aspetto del contatto umano che ci è tanto necessario. A volte ci viene detto che anche noi, col nostro stare al di qua di una grata, possiamo apparire in qualche modo ‘virtuali’, ma paradossalmente poi ci viene anche rimandato che siamo molto più presenti di altre persone. L’essere stabili in un luogo per alcuni è confortante perché è sapere che, seppur nella sua fragilità, c’è un cuore che ti accoglie, che si fa ‘casa’ per te!

Come si svolge la vostra giornata?

La nostra giornata è ritmata sulla Liturgia delle Ore che è la preghiera della Chiesa per la quale mediamente ogni tre ore ci ritroviamo in coro, a partire dalle 6 della mattina fino alle 21,10 con la celebrazione di Compieta, che chiude la giornata. Per il resto abbiamo momenti di preghiera personale e il lavoro di casa (cucina, sacrestia, bucato, pulizie, giardino, orto, ecc.), così come altri lavori che ci aiutano per il mantenimento. Abbiamo momenti di lectio divina, di formazione, di riunioni comunitarie, prove di canto. Sono giornate semplici dove è nella quotidianità che si va dispiegando il mistero stupefacente dell’Incarnazione di Dio nel suo stare in mezzo a noi, nel non aver rigettato nulla della nostra umanità.

Ha mai avuto dei ripensamenti sulla sua vocazione? E Cosa l’ha aiutata quando ha avuto dei dubbi?

In ogni vita, se vissuta seriamente, si attraversano momenti di fatica, di crisi in cui si ripensa, a volte si vorrebbe fare un bilancio per non dire anche di lasciarla, di cambiare. Anch’io non ne sono esente. All’inizio è qualcosa che spaventa perché il dubbio viene a portare comunque qualcosa di nuovo dentro di noi, nella vita di tutti i giorni e destabilizza. Quindi non è immediato e facile farci i conti, lasciarsi interrogare dal dubbio. Per la mia esperienza, ma non solo mia, c’è da chiedersi che cosa non ci soddisfa della nostra vita e perché, che cosa volevamo e cercavamo e cosa abbiamo. È importante però non farlo da soli, ma trovare qualcuno per un confronto aperto, una persona fidata, magari anche un esperto, a seconda delle situazioni. Bisogna evitare di fermarsi per non finire a rigirarsi su se stessi, ma restare sempre aperti, in cammino. Il dubbio, la crisi, i ripensamenti, le delusioni, tutto allora può diventare occasione di crescita e di grazia, di uno sguardo diverso sulla realtà di se stessi, degli altri e di ciò che ci circonda.

Cosa pensate di Papa Francesco? Porterà il cambiamento necessario per ridare alla chiesa la speranza che merita?

La Chiesa ha già la sua speranza che è il Signore Gesù, quindi credo che sia necessario rimettere Lui al centro. E questo è quello che papa Francesco, sulla scia anche dei suoi predecessori, sta portando avanti: rimettere al centro Gesù e l’incontro con lui. Il cambiamento che è sempre necessario, non dipende però dal Papa, ma da ognuno di noi perché ogni membro della Chiesa è chiamato a questo incontro, a mostrare e testimoniare la bellezza del volto del Signore. Da come ognuno accoglie Gesù nella sua vita si avrà un cambiamento: è responsabilità personale di ogni ‘figlio’ portare il proprio contributo nella sua famiglia che è la Chiesa.

Che cosa provate per il fatto che tanti giovani non pensano minimamente a Dio?

Mi vengono in mente due frasi di due donne, lontane nel tempo, tra loro, eppure così vicine. La prima è Santa Chiara nella terza lettera a Sant’Agnese di Praga quando le scrive di stimarla, collaboratrice di Dio stesso e sostegno delle membra deboli e vacillanti del suo ineffabile Corpo.
L’altra è la ragazza ebrea Etty Hillesum, morta nella seconda guerra mondiale in un campo di concentramento e che scriveva nel suo diario: “Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi… Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini… tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.”
Come donna c’è un desiderio innato di essere collaboratrice della vita, di custodirla ed è per questo che provo una sofferta tenerezza nel vedere come tante vite di giovani, e anche non giovani, vengono derubate dei loro sogni che sono sostituiti con illusioni. Vite piene di desiderio, di quell’anelito infinito di felicità che ci portiamo nel cuore e che viene cercato in tante cose che invece deludono o che hanno una breve durata e che possono portare anche alla morte, non solo fisica, ma anche del cuore. È vero che c’è una società fatta di tante voci che assordano e quella di Dio è sottile, non si impone, ma si propone, ma c’è anche un interrogativo serio e inquietante da farsi: come noi contagiamo gli altri dell’amore di Dio? Perché in fondo è questo: l’amore di Dio si diffonde un po’ per ‘contagio’ cioè se vedo qualcuno che mi affascina lo seguo. Quanto noi rendiamo affascinante la persona del Signore? E quanto la ammantiamo di regole, di leggi, di immagini false che non dicono il suo vero volto?! Ce l’ha ricordato bene Papa Francesco dicendo che il vero volto di Dio è la misericordia. Quanto noi doniamo questa verità?
Concludo con le parole di Etty H. che questa verità l’aveva trovata: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta di pietre e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo”.

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