Bruno si accompagna al Tevere da 65 anni. Un legame che dura da una vita. “È parte di me, ne sono innamorato – dice sorridendo con pudore – sono un fiumarolo. Da ragazzo l’ho bevuto e oggi spesso lo mangio, nella mia dieta da uomo, ormai solitario, il pesce del fiume è una presenza fissa”.

Ha 81 anni ma ogni giorno dell’anno sale sulla sua Panda vecchiotta, e va ai bordi della pianura. Organizza la giornata e aspetta la sorpresa che abboccherà all’amo. “Sto bene, tutto qui”.

Bruno Antimi usa poche parole che evocano equilibrio e armonia.  Ascoltandolo torna nella memoria il racconto di Ernest Hemingway “Il gran fiume dai due cuori”, dove il protagonista Nick Adams, nello stare solo in riva del suo “Big” per cercare di catturare trote giganti, ritrova la pace smarrita. Il fiume di Bruno è così: il posto dove stare bene. In questi giorni di grande calura parte alle 6 e mezzo e torna verso le 11. Si mette sulla riva al riparo dei grandi alberi, prepara la canna e le esche e poi “aspetto che arrivi il pranzo” dice, ridendo. 

Diserta il fiume solo nei dì di festa e nei fine settimana. Lascia il campo a quelli che sulle rive campeggiano. Famiglie, barbecue, fumo, musica pescatori senza anima. “Non mi piace, così non mi piace. Il fiume vuole discrezione, silenzio, ascolto, non la festa di carnevale. Il lunedì trovo sempre sporco, bottiglie sparse, buste con gli scarti del banchetto. Così non va, i controlli sono scarsi, c’è un po’ di abbandono”.

Nelle parole trapela quasi gelosia nei confronti di chi si muove nel luogo dei suoi sentimenti, con maleducazione, senza grazia né cura. Il fiume oggi è elemento distante dalle comunità che abitano le colline, è ai margini del mondo rutilante. “Però è vivo e in forze – dice Bruno – è ricco di pesce e meraviglie.  Io pesco lucci, spesso la lucioperca dalle carni pregiate, barbi, alborelle. All’amo abboccano cavedani, capita di prendere, anche se raramente, capitoni”. Ci sono carpe meravigliose, ma le pesca il mio amico Riccardo, sono la sua specialità. Le misura, le fotografa e poi le rimette in acqua. È uno amico mio e del fiume”.

 

Un predatore killer abita il Tevere. Il pesce siluro, animale gigantesco, quasi mitologico, dalla bocca enorme, che ingoia ogni cosa e fa strage dei suoi simili nel buio delle acque.

“L’abbiamo pescato in più occasioni, anche esemplari di 40 chili. È una sorta di pesce gatto gigante, fa paura per tirarlo fuori dal fiume, occorre la forza di due uomini”. Però la vita nel fiume è più forte anche del predatore. Si rinnova, non cede il passo, offre acqua, tane, anfratti sufficienti a permettere una robusta riproduzione di tutte le specie.

“Nei giorni scorsi mi ha regalato una grande contentezza. Avevo preso dell’acqua con un secchio e c’erano delle foglie, nel prenderle per gettarle fuori, ho scoperto che a una era aggrappato un granchio di fiume. Piccolo, chiaro. È stata una bella scoperta. Significa che le acque sono di buona qualità”.  Spesso solo, altre volte con l’inseparabile amico Agostino, Bruno risale il Tevere da Capena gettando la lenza nell’area di Ponzano.

Il pescato qualche volta Bruno lo regala, altre volte  Simonetta, la moglie del suo partner storico Agostino – racconta con soddisfazione – sapendo che ormai io vivo solo, lo cucina al forno con patate e rosmarino e mi manda la teglia calda. Quando accade, e accade spesso, sono contento”.

 

Così mi lascia dopo la chiacchierata per andare al circolo anziani. Forse a raccontare di pesci magici. Forse a ricevere qualche richiesta di pesce fresco.  Bruno è uno di quelli che, come ha scritto Ignazio Silone, “ha conservato nell’anima il seme di qualche certezza incorruttibile”. Il fiume.

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