Il rispetto degli alberi e della loro sacralità è un valore oggi messo all’angolo, è praticato ancora con determinazione quasi soltanto dalle maestre delle scuole elementari e dai bambini. Loro hanno il merito di tenere accesa l’attenzione. Alle medie gli alberi scompaiono dall’orizzonte, alle superiori sono definitivamente  desaparecidos.
È in questo distacco l’inizio della deriva: dalla memoria, dalla propria terra, da se. Negli alberi, come raccontavano pagani e celti, scorre, insieme alla linfa, il genius loci, l’anima stessa del mondo che ognuno di noi abita e calpesta. Occorrerebbe dedicargli pensieri e presenza, raccomandavano gli antichi testi. Ho fatto questo il giorno della festa degli alberi, sostando e passeggiando nel mio arboreto sacro. È composto da dieci ulivi  e un carpine gigante che rompe i muri di cinta e troneggia sul punto piu alto della collina. Gli ulivi dimorano lì da oltre 200 anni e sono gli alberi della rivoluzione.
Raccontava Giovanni “Tagliamacchie” ed io ci ho sempre creduto. ”Trattale con gentilezza e cura  quelle piante – mi disse – fanno olive ricche e stanno li dal tempo della rivoluzione francese”. Il carpine gigante sta ben saldo nel podere di fronte, secondo me ha gli stessi anni e segna il confine della sommità collinare. Dopo il suo tronco da re la terra inizia a scendere da ogni lato. La chioma immensa è luogo di nidi. Ogni autunno quando si spoglia ne fa intravedere almeno tre  abbandonati.
I dieci ulivi sono più discreti e massicci. Il tronco ampio dà conto dei secoli. I rami del loro stato di grande salute e fertilità. Al censimento del mio arboreto salvatico, come lo avrebbe definito Carlo Sgorlon, manca solo un giovane albicocco i cui rami davano direttamente dentro la cucina di casa. Un giorno dissero che dava fastidio e al ritorno da scuola non c’era piu.
Sotto queste ombre ho  viaggiato con Jack London e  Conrad e poi con Hemingway e Steinbeck. E infine con Cent’anni di solitudine. Ma anche con un Ettore Fieramosca e la disfida di Barletta di un certo Massimo D’Azeglio e un bel tomo  sulla vita della contessa Maffei, animatrice dei salotti milanesi nel corso del risorgimento.
Un mondo intero di anime e storie abita questo lucus. Prendo in prestito una frase di Simone Weil che mi ha segnalato un amico carissimo: “L’attenzione – dice – è la forma più rara e più pura di generosità” e, aggiungo io, di resistenza all’orrido che avanza, al deserto che assedia le nostre piazze, al vuoto delle notti.
L’arboreto suggerisce di fare un censimento degli alberi piu antichi, paese per paese, di creare un loro archivio fotografico, di farli adottare dai bambini.
Io sono convinto che cosi per i barbari sarebbe tutto piu difficile.

                                                                                                 A cura di Luca Benigni

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