È andato via con un occhio nero malridotto di violenza, Remo il Macedone. Raccolto in un angolo del paese vecchio e portato in ospedale. È stato dimesso qualche giorno dopo. Un pestaggio. Anni prima sarebbe riuscito a difendersi ma, ormai vecchio, il leone, ha dovuto cedere il passo. La sua storia ormai era finita.
Lui, immagino, lo abbia anche capito. Forse per questo non ha mai voluto presentare una denuncia. È accaduto una notte d’estate dell’anno scorso, a Capena, raccontano in paese. Dopo le dimissioni è arrivata la moglie che ha riportato a casa quell’uomo inquieto, migrante per vocazione e ferito.
Così è morto nel letto di casa sua e sepolto nella sua terra. Remo era arrivato negli anni ‘90, con la prima ondata migratoria dai Balcani. Nel paese ha vissuto per quasi 30 anni. Ha pagato l’affitto della cantina dove, per scelta bisogna dire, ha sempre abitato. Costava poco il tugurio nel centro del paese, e questo permetteva di inviare a casa più soldi. Ha lavorato nei cantieri come manovale, muratore, carpentiere. Negli ultimi anni faceva piccoli lavori di manutenzione presso il cimitero.
In Macedonia, in un luogo vicino ad un bellissimo lago, aveva costruito una grande casa, così raccontava. Negli ultimi anni andava spesso a nel suo paese, ma poi tornava in quella cantina. Amava ormai quelle strade come fossero le sue.
Invece ha incontrato la furia ottusa che lo ha piagato e piegato. La storia di Remo a Capena è finita così nell’indifferenza dei più, una notte d’estate. Di seguito il racconto ispirato a lui che ho scritto l’anno prima che morisse. È il mio omaggio a tutti i migranti e a Remo che fu un amico e frequentò la mia casa. Il cognome è un licenza, Leopardi invece era mio padre. Nella realtà non recitava Leopardi, ma è vero che gareggiava con l’alba. Il resto sono fatti realmente accaduti
Remo Marcovich e Leopardi
Remo Marcovich arrivò sulla scia dell’alba. Intruppato ad un gruppo di gente più giovane. Andò con gli altri in un ricovero di fortuna affacciato sulla via principale del paese. Un locale stretto e buio. Peggio della nave che li aveva traghettati dalle coste albanesi a quelle dell’Italia, terra dei sogni. Uscì subito per respirare aria pulita, accese una sigaretta e si avviò nella leggera salita. Era il momento in cui il barista del piccolo locale, accendeva la lampada. Un faro grande, che illuminava tutta una piazza. Avveniva sempre prima che il sole da est superasse il profilo del monte. Era una delle fisse del padrone del bar. Ogni giorno gareggiava con l’alba.
La luce improvvisa sorprese l’uomo che per un attimo chiuse gli occhi pensando fosse quella della polizia. Li riaprì subito e il fascio brillò su occhi di animale selvatico in difesa. Fermo nel buio, Remo Marcovich iniziò ad organizzare il prossimo tratto della sua vita. Forse una nuova fuga. Scrutò quello spicchio di terra guardingo e teso come ogni essere vivente di fronte ad un precipizio. Era arrivato da pochi minuti, dopo aver attraversato il mare su una nave malandata. Pelle cotta dal sole e naso adunco, corpo asciutto e curvo come una canna, occhi serrati impegnati a radiografare, più che vedere.
Migrante con addosso ancora un vago sentore di nafta, segno olfattivo persistente del viaggio, stipato con altri mille, nel ventre del bastimento che sembrava fosse acqua nell’acqua nera del mare. Si guardava intorno per indovinare se fosse quello il buco di mondo dove poter camminare con le mani in tasca. O quello da cui fuggire subito. Restò in attesa.
Il faro era di un chiosco che accendeva la vita del borgo, il segnale che aspettavano ogni giorno gli abitanti dell’ultimo buio: cacciatori intabarrati, uomini inquieti reduci da notti di vita e fumo, amanti sfiancati da storie clandestine. Il vecchio barista apriva loro le porte e li rifocillava tutti. Amava quel lavoro, quell’ora e la luna. Lo chiamavano tutti Leopardi perché declamava spesso all’alba , i versi de Alla Luna: “E tu pendevi allor su quella selva. Siccome or fai, che tutta la rischiari”.
E calava il caffè sul banco. La gente varcava la porta del bar, i primi trattori percorrevano la curva della provinciale puntando i fari in direzione delle vigne di pianura; un reggimento di muratori e capomastri si affrettava verso l’autobus per costruire in città altissimi palazzi. Per l’ultima corsa si stagliava intanto all’orizzonte uno stropicciato drappello di studenti. Alle sette era tutto finito.
Il sole bello alto brilluccicava sulla comunità che abitava le dieci colline. Il barista, dopo l’accensione, smanettava la macchina del caffè modellando espressi e cappuccini. Remo calmò la sua paura, si confuse tra i primi avventori ed entrò nel locale. “Questa polvere diverrà crema, la migliore” tuonava Leopardi. Poi vide Remo e, come se si rivolgesse ad un vecchio cliente, disse semplicemente: “Ecco qua caro mio. Prendi, questo è quello che stai sognando, un caffè lungo e bollente. Offre la ditta”.
Il macedone strizzò gli occhi selvatici e accennò un sorriso. Riconobbe subito in “Leopardi” il fratello che aveva dimestichezza con la fatica del viaggio, l’emigrante, e gustò il caffè della pace. Forse sono arrivato, pensò. L’uomo che aveva di fronte, un tempo era partito in treno verso i paesi del nord per seguire una traccia che annunciava sorte benigna. Aveva lavorato con uomini di tutto il mondo parlando con tutti pur conoscendo solo la lingua del suo paese. Aveva dialogato con emigrati polacchi, armeni, egiziani, indiani, ma anche inglesi e russi. Per il lavoro bastava un’idioma bastardo come quella dei porti. La fortuna, quella grassa però si fece solo vedere, ma non si fermò. Accade spesso ai più, questo scherzo della vita.
Sì, non era una vita di miseria, ma non era l’Eldorado sognato, non valeva la lontananza dalle colline. Così una domenica mattina, all’improvviso, con moglie e figli decise di tornare. Due mesi dopo con i soldi racimolati comprò il chioschetto fuori le mura. Da allora è il primo ad arrivare in piazza gareggiando con il sorgere del sole. “Da dove vieni?” chiese Leopardi a Remo. “Dalla Macedonia” rispose l’altro. “Vieni dal paese di Alessandro Magno, siete gente di conquista. Eppure ora scappate. Strano il mondo. E che lavoro facevi?” insistette il barista – “Il muratore – rispose l’altro – e belle case di legno”.
Le parole erano poche, solo quelle necessarie. Ma, come quando era nel paese del nord, bastavano. “Dammi una mano – disse Leopardi – aiutami a mettere a posto i tavoli qui fuori al giardino. Facciamo sei file da tre e per ogni tavolo mettiamo quattro sedie”. Presero a lavorare in silenzio. Remo dopo un po’ iniziò a sudare. Per la prima volta le sue gocce di fatica si mischiarono alla nuova terra. Sorrise, nella brezza leggera. Il cuore batteva con un ritmo regolare. Il seme piantato. L’uomo del caffè lo aveva ancorato alla comunità senza troppe parole. Sarebbe rimasto tutta la vita. Finita l’opera i due si fermarono a riposare e accesero una sigaretta. Rimasero lì in silenzio avvolti nel fumo. Soddisfatti.
L’orizzonte annunciava una giornata nitida, le file dei tavoli erano in ordine perfetto, il pavimento pulito, senza carte né cicche. Gli ombrelloni bianchi e rossi, aperti. Il colpo d’occhio restituiva l’armonia di un lavoro ben fatto. Il viaggio era finito. Remo tirò una bella boccata di fumo pensando che, sì, li poteva restare. Poi strinse forte la mano dell’uomo che recitava Leopardi e tornò nel tugurio. Gli altri erano tutti fuori. Dormì sereno molte ore.
Negli anni seguenti, al tamonto, trovavi sempre Remo seduto ad uno dei bar, ma soprattutto al “baretto” , quello dove prese il primo caffè. Sembrava sempre in agguato del futuro, della fortuna. Viaggiava su un corpo segaligno pronto a scattare. Avvolto nel fumo delle sigarette che fumava a decine, aspettava che arrivasse chissà quale meraviglia
Fumare insieme una sigaretta sul finire sul finire della notte, negli anni divenne, per Remo e Leopardi, un rito, e segnò molte lune. Il fumo denso delle Nazionali accese dai due al cospetto del primo sole salì nel cielo per lunghe stagioni. Poi Leopardi si fermò. Un giorno all’improvviso si fermò. La luce rimase spenta. Remo fumò solo. Seduto su una sedia attese invano. Peppe il netturbino, passando di li, lo avvertì: “Remo che aspetti? Leopardi è andato via. Domani ci saranno i funerali”. Remo Marcovich rimase li a fumare tutto il giorno. Aspettò che passasse il feretro del suo compagno poeta. Leopardi arrivò verso le 16 a bordo di una carro luccicante che si fermò brevemente di fronte la bar. Remo si alzò in piedi, tolse il berretto, e fece un segno della testa al passaggio della bara. Senza lacrime, l’accenno di un sorriso, lo stesso della prima alba. La sigaretta accesa tra le dita. Quel filo di fumo era una promessa.
Ancora oggi che sono ormai passati anni lunghi lunghi, tutte le mattine, con qualunque tempo e in qualunque stagione, Remo più curvo di allora e rughe in abbondanza, è al chiosco e ordina un caffè. Poi con passo leggero esce e si siede. Accende una sigaretta e fissa la piazza. Aspetta che salga il sole e ne accende una seconda. Nel fumo denso e bianco che va libera un sorriso.
È per quel fratello che amava Leopardi, che gli offrì la mano, un caffè e un altro mondo”. Si, quel fratello, era mio padre. E Remo il Macedone un uomo che merita memoria.