Nei primi anni del Novecento, a nord-ovest dal centro di Roma, sorgeva un ampio e meraviglioso parco permeato di numerose specie botaniche, dove sembravano regnare il silenzio e la pace, come in un’oasi nel deserto. Al di fuori del parco si poteva scorgere solamente un’enorme distesa di campi: per questo, la zona era chiamata Sant’Onofrio in Campagna, luogo in cui oggi si trova il quartiere Monte Mario.

Tra piante, fiori e immensi terreni, però, all’interno del parco si stagliavano, imponenti, anche alcuni edifici, collocati con un criterio ben preciso. Da ognuno di essi, continuamente, provenivano suoni udibili e definiti, a causa dei quali il silenzio intorno veniva rotto e la pace diventava solo uno stato apparente. Erano le urla e i lamenti di chi abitava in questo luogo: i pazienti di un manicomio fatto di padiglioni e sofferenze.

Era il 1914 e nella zona di Sant’Onofrio in Campagna veniva inaugurato l’ormai ex manicomio di Roma: il “Santa Maria della Pietà”, collocato al di fuori del contesto urbano e sociale del centro città, perché la “follia” doveva essere relegata, allontanata, in un luogo dove «debbono essere custodite e curate […] le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo» (art. 1, legge Giolitti, 1904).

Dal sito: https://chille.it/eventi/passeggiata-straordinaria-sulla-storia-e-realta-dellex-ospedale-psichiatrico-s-maria-della-pieta-roma/

La prima legge in materia manicomiale, dunque, coincideva quasi con l’apertura del manicomio romano, ma soprattutto sanciva chi doveva entrare in manicomio. Non solo persone affette da un disturbo mentale, ma chiunque fosse ritenuto pericoloso e chiunque si allontanasse con i propri comportamenti dalla morale comune: omosessuali; donne che semplicemente volevano discostarsi dai ruoli socialmente accettabili, come quelli di moglie e madre; ma anche bambini nati al di fuori del matrimonio, orfani, con sindrome di down o con disturbo dello spettro autistico. Insomma, era molto facile entrare nella voragine infernale del manicomio: bastava essere diversi rispetto alla normalità che propinava la società.

Chi entrava in manicomio perdeva tutto ciò che di materiale aveva nel momento dell’internamento coatto: abiti, soldi, averi, che fosse un orologio, una foto, gli occhiali; tutto veniva riposto in un fagotto e conservato nella cosiddetta “fagotteria”. Ma, forse, chi entrava, perdeva qualcosa di ancora più importante: i propri cari, i diritti civili e politici e veniva iscritto al casellario giudiziale; quindi, di fatto, avrebbe avuto la fedina penale sporca senza aver commesso alcun reato. Eppure, per quella legge, avere un disturbo mentale, amare persone dello stesso sesso, inseguire un sogno, essere bambini “illegittimi”, orfani o “malati” era considerata una colpa.

La vita in manicomio era segregante e umiliante. Ai pazienti veniva tolto tutto e non veniva dato niente; erano lasciati nella noia e nell’abbandono, ma sorvegliati costantemente dagli infermieri all’interno dei padiglioni, senza alcuna forma di libertà o di privacy. L’istituzione manicomiale mirava a una vera e propria spersonalizzazione dell’individuo perché le persone, lì dentro, non perdevano solamente il contatto con il mondo esterno, ma anche con loro stesse, e quindi con la propria identità.

I pazienti del Santa Maria della Pietà, come tutti i pazienti degli altri manicomi d’Italia, hanno vissuto per decenni in questo stato di esclusione e abbrutimento. Ma, dalla fine degli anni ’60 del Novecento, l’istituzione manicomiale iniziò ad essere messa in discussione grazie ai cambiamenti sociali che percorsero l’Italia e che portarono a proteste e riforme.

In particolare, nell’ex manicomio romano, si iniziò a respirare aria di novità quando vennero organizzati laboratori di pittura e di scrittura per i pazienti. Un evento rivoluzionario se si pensa che, fino a quel momento, ai pazienti non era permesso di fare nulla se non deambulare in spazi circoscritti e scambiarsi quattro chiacchiere tra di loro. L’arte fu uno strumento talmente potente da far risvegliare in alcuni pazienti emozioni e sentimenti che, in un luogo come il manicomio, sembravano essere perduti per sempre.

Da questi laboratori emersero veri e propri artisti e poeti, i cui quadri sono conservati ancora oggi nell’Archivio Storico del Santa Maria della Pietà, e le cui poesie sono state pubblicate in un’antologia di testi poetici. Nel vederli e nel leggerle, si capisce che, nonostante tutto, queste persone non hanno mai perso la loro memoria, forse riaffiorata, anche in questo caso, proprio grazie al potere dell’arte.

Una rinascita, dunque, un «risveglio di primavera» fatto di centinaia di fiori appassiti che, giorno dopo giorno, hanno riacquisito forza vitale fino a sbocciare nuovamente. Perché «il manicomio è pieno di fiori, ma nessuno riesce a vederli» (Mario Tobino, Le libere donne di Magliano).

Risveglio di primavera è il titolo di una poesia scritta da un ex paziente del Santa Maria della Pietà da cui trapela tutta la sofferenza vissuta, ma anche il modo in cui questa persona è riuscita ad elaborarla: attraverso la poesia stessa.

Al primo soffio, tiepido, d’aprile

tutto di fiori si ricopre il prato.

Si ridesta ogni nido, ogni covile

e la gioia ritorna nel creato.

Ma nuova pena si risveglia in cuore

di chi richiuso al manicomio sta,

e ripensa con più vivo dolore

alla sua casa e alla perduta libertà.

(Una finestra sul reale, antologia di testi poetici

dal Laboratorio di scrittura del S. Maria della Pietà)

Per fortuna, oggi i manicomi in Italia sono definitivamente chiusi, a dispetto di tutti coloro che ne rivendicano l’apertura senza nemmeno conoscere la loro storia. È stato un processo lungo e faticoso voluto fortemente da psichiatri come Franco Basaglia che è terminato nel 1978, anno della legge 180, conosciuta ai più come “Legge Basaglia”, la quale ha sancito la chiusura dei manicomi in Italia.

Tuttavia, il manicomio di Roma ha chiuso definitivamente i cancelli nel 1999, perché nel 1978 l’istituzione ospitava ancora più di mille pazienti. Fu molto difficile, infatti, ricollocare le persone all’interno del contesto sociale, in quella città che molti anni prima li aveva espulsi. È emblematica, infatti, la frase pronunciata da un paziente a uno degli psichiatri del manicomio: “la fai facile tu, ma per noi è molto difficile entrare fuori”.

Così, “entrare fuori, uscire dentro” è diventato lo slogan del Santa Maria della Pietà, soprattutto perché medici e infermieri si adoperarono affinché tutti i pazienti potessero riprendere in mano le loro vite, per esempio, facendo trasferire nelle case famiglia o nei centri diurni chi ormai una casa non ce l’aveva più. Ma soprattutto cercarono di far incontrare chi stava fuori con chi stava dentro, organizzando delle vere e proprie feste di quartiere all’interno dell’ormai ex manicomio, per far comprendere che poi, in fondo, chi stava dentro così tanto pazzo e pericoloso non era.

Oggi il Santa Maria della Pietà, oltre ad essere un meraviglioso parco aperto ai cittadini ‒ dove si effettuano anche visite guidate ‒, ospita alcuni servizi della Asl Roma 1 e del Municipio XIV, ma soprattutto l’Archivio Storico, la Biblioteca Cencelli e il Museo Laboratorio della Mente, veri e propri portatori di memoria, una memoria che non deve essere dimenticata affinché l’orrore del manicomio non si ripeta mai più.

Una rinascita, dunque, non solo delle persone che hanno vissuto all’interno del manicomio, ma anche del manicomio stesso, diventato luogo aperto ai cittadini per usufruire di servizi e soprattutto di arte, ancora una volta protagonista di vita.

Dal sito: https://centrostudipsicologiaeletteratura.org/2018/05/visita-al-museo-laboratorio-della-mente/

Immagine di copertina dal sito: https://www.museodellamente.it/museo-laboratorio-della-mente/

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