Nella foto: Maria Bali

Il direttore di questo prezioso giornale, mi ha aperto un mondo quando, in vista della festa più festa dell’anno, mi ha chiesto di raccontare l’attesa del 25 dicembre attraverso le memorie di chi oggi ha l’età con cui ieri ha vissuto, da bambino, un’altra, e senza dubbio più genuina, e semplice, aspettativa di festa. Munito di penna e bloc-notes ho perciò chiesto a sei amiche di narrarmi il Natale del proprio tempo.

Nell’incontrare Elsa Pompetti, amica di Riano, ho assaporato il “suo” Natale ricco “di calze di lana fatte ai ferri, di biscotti con le noci raccolte da una pianta nel nostro giardino, e che ancora esiste e resiste, e da un solo torroncino, uno solo, che a ripensarci ora mi riporta il senso di un gusto mai più sentito e che nel rimasticarlo col pensiero mi commuovo da sola”.

Elsa Pompetti

“Ho 71 anni e ricordo un Natale, in particolare, negli anni attorno al 1956, di cui custodisco gelosamente le foto, nonostante di foto all’epoca se ne facevano davvero poche… ˗ mi racconta Elsa ˗ Avrò avuto poco più di tre anni… di quando scrissi, si fa per dire, una letterina a Gesù bambino, manifestandogli tutto il mio possibile bene e chiedendogli in dono una bambola grande quanto me. Gli scrissi proprio cosi a caratteri cubitali: ‘grande come me’. Poi gli chiesi, disegnandolo, un vestitino nuovo. E di lasciarmi il tutto sotto l’albero”. Per la gioia, l’indomani, andai in Chiesa saltellando, contenta e felice di essere stata ascoltata. E in Chiesa baciavo a più non posso il bambinello. Ora c’è il telefonino, che manda messaggi e scatta foto a tutto spiano. Ma ai tempi miei per una foto dovevi chiamare il fotografo a casa. E la foto di quel Natale, con quella bambola alta quasi quanto me, è l’immagine che io conservo nel cassetto della mia memoria più di ogni altra cosa al mondo”.

Nella foto: Elsa Pompetti e la bambola “grande quanto lei”

“I miei ricordi di Natale vanno dal 1953 al 1960. Era un altro mondo ˗ sottolinea Elsa ˗ letteralmente un altro mondo. Ricordo la corsa al muschio nelle campagne di Riano per fare il presepe. Facevamo a gara in casa a chi portava più muschio. Mio padre invece preparava all’albero. Lo faceva con il pungitopo, quello che ha le foglie verdi, una retina bianca e le palline rosse. Ad addobbarlo ci pensava nonna, che faceva dei fiocchetti di lana che noi attorcigliavamo ai rami del pungitopo”.

“La cena della Vigilia era un’esplosione di cibo fatto in casa. Si mangiava per lo più carne di maiale. Si cucinava la “padellaccia”, con pancetta, salsicce e lonza. Le salsicce natalizie, le chiamavo io, parevano ornare la tavola e facevano anche da segnaposto. Si mangiava tutta roba cotta al camino. Il fumo che aleggiava quella notte nella camera da pranzo te lo lascio solo immaginare. I nostri vestiti ne venivano intrisi. Era il profumo non desiderato che ti lasciava addosso quella cena. E poi le frittelle di broccolo, raccolto nell’orto. A quei tempi ogni famiglia aveva un orto. Mia nonna le cuoceva sulla stufa a legno. In quelle Vigilie era uso invitare “i compari” di battesimo, che mi portavano ogni anno un regalino. Un’usanza che ora si è persa”.

Giuseppina Piermarini, nata a Sant’Oreste nel 1932, quattro fratelli, di cui tre femmine e un maschio, il Natale lo ricorda con “molta gioia”. Lei pensa al Natale “come un qualcosa di molto bello, perché prima, anche se noi in famiglia stavamo benino e non avevano problemi di povertà, però… come accadeva a tutti del resto in quegli anni… avevamo poco… ma quel poco per noi era un momento magico”.

La sua famiglia per Natale si riuniva al completo. Giuseppina ricorda che per il 24 si cucinavano le cose tipiche di Sant’Oreste. “Facevamo il ‘guazzetto’, che è fatto di baccalà in umido, pane mollo e ceci, e per dolce facevamo i ‘conferzini’, che sono dolcetti fatti con le noci, i ‘tozzetti’ con le nocchie, e i ‘carrozzi’, che sarebbero i fichi essiccati, e il torrone”. Giuseppina racconta che “il torrone, in casa, lo faceva mia sorella più grande e quindi io, che ero più piccola, la guardavo esterrefatta e contenta mentre lo preparava ed era molto golosa di quel torrone”.

Nella foto: i “conferzini”

“Nel periodo antecedente alla guerra ˗ racconta Giuseppina ˗ la notte di Natale andavamo tutti in chiesa. Prima giocavano a tombola e poi a mezzanotte si andava a messa, che durava fino all’una. Si facevano le recite, organizzate dalle suore, ed erano momenti di socializzazione semplice e pura”.

“Per quanto riguarda i regali ˗ aggiunge ˗ ricordo una cosa curiosa: alcuni parenti della Sicilia, per le feste, ci mandavano dolcetti, mandarini, arance e alcune bustine contenenti dei piccoli giocattolini, che noi, finito il Natale, puntualmente riciclavamo l’anno dopo, per cui quei giocattoli ogni anno venivano riusati… mentre i dolcetti, ovviamente, ce li mangiavamo”.

“Durante il periodo della guerra ˗ sottolinea Giuseppina ˗ la cosa che ricordo bene è che la messa si faceva di notte in campagna e al buio e quindi tutti quelli che volevano andare a messa si dovevano avventurare senza torce e senza luce, perché altrimenti potevano essere avvistati, perché a Sant’Oreste, dove adesso c’è il bunker, c’era il quartiere generale dei tedeschi… di quel periodo ricordo il buio, ne ho quasi una percezione fisica, perché tutto si faceva di notte, anche macinare le olive e il grano si faceva al buio, di notte, per paura che poi venivano i tedeschi a razziarti tutto. Durante la guerra ˗ mi dice sconsolata ˗ quindi non facevamo nemmeno le recite: non potevamo uscire e si viveva chiusi in casa. Me lo ricordo molto bene, nel 1943 avevo 11 anni”.

“Il Natale ai miei tempi ˗ racconta Maria Scarpelli di Morlupo, nata nel 1939 ˗ era una festa esclusivamente di famiglia ed io, che ero la più piccola di sette fratelli, in quei giorni di festa avevo le attenzioni tutte catalizzate su di me”.

“La sera della Vigilia ˗ continua ˗ si cenava e poi a mezzanotte si andava a messa con mamma e papà. Mamma per Natale metteva da parte le noci che noi rompevamo tutti insieme il 25, mangiandole assieme ai mandarini e a qualche torroncino. Il dolce tipico era la “pizza di Natale”, con uvetta, noci, mandorle, nocciole e fichi secchi”.

“Col passare degli anni ˗ rivà con la mente Maria ˗ i fratelli maggiori erano tutti fuori casa e il Natale diventava così l’occasione per riunirsi tutti assieme, soprattutto con mio fratello che viveva a Udine”.

Come ornamento per casa, Maria ricorda che “si raccoglieva un ramo di pino e si addobbava con fiocchetti rossi e un po’di farina, per la neve”.

“Il sentimento di gioia era quello che regnava in tutte le case e mettersi a tavola in nove ˗ sottolinea Maria commossa ˗ era una grande festa. Per l’occasione si cucinava un agnellino, cresciuto da noi, e qualche pollo. Ricordo che a Natale veniva a trovarci il fratello di papà, che viveva a Roma, con la moglie e immancabilmente ci portava frutta e dolcetti che in paese non si trovavano. La moglie, Ermelinda, che indossava cappello e pelliccia, ogni santo Natale, prometteva sempre doni maggiori, tra cui scarpe e vestiti, ma non manteneva mai le promesse… e io ero l’unica che a ogni Natale continuavo a crederle”.

“Io a Rignano Flaminio, da bambina ˗ mi racconta Tina Bastianelli, 70 anni ˗ trascorrevo Natali assai rurali. Ricordo che ad ogni Natale piangevo davanti all’albero, che addobbavamo con grosse palle di vetro. Di vetro era anche la neve per decorare a quei tempi. Ho una foto in cui, a due anni, sto in braccio a mia madre e piango, forse proprio per la paura di quel vetro che se non stavi attenta ti tagliava le mani”.

Nella foto: Tina Bastianelli

Più Natale o la Befana? “Decisamente la Befana. A me i regali ˗ continua Tina ˗ li portava la vecchia in groppa alla scopa magica. Però il giorno della Befana stavo sempre triste. Immancabilmente. Pensavo all’indomani, che bisognava tornare a scuola. Ricevevo bambole per lo più. Una ogni anno. Con i regali ricevuti poi si andava a messa. Un anno ho anche recitato in Chiesa. Comunque i regali a me li faceva l’azienda in cui lavorava papà. Fu grazie a loro che scoprì i “ricciarelli” ad esempio, che io ingurgitavo con avidità. E chi li aveva mai visti!”.

“Lasagne e pollo al forno era il nostro menù. E poi giocavamo tanto a tombola. Ho ricordi di tombolate lunghe ˗ rammenta Tina ˗ a casa di mia nonna, dove io andavo e insieme a lei e alle sue amiche, tutte vecchiette, con luce bassa e fioca, sedute attorno al tavolo trascorrevo serate intere. E mettevamo un soldo a testa per le spese della corrente elettrica prima di ogni partita… vallo a spiegare ai giovani d’oggi quei Natali…”.

A Faleria, Palmira Celesti, 93 anni, è una miniera di memoria, una fonte inesauribile di ciò che il tempo ha lasciato.

Nella foto: Palmira Celesti

Tra rammenti e rievocazioni, Palmira ricorda che “il cenone del 24 dicembre prevedeva: menù di magro, con spaghetti con il tonno e prezzemolo, broccoli impastati, baccalà cucinato in varie maniere, sotto la brace, impanato o in umido; menù: pesce spinato, fritto, borragine fritta, formaggi, dolci, “tisitelle”, ciambelle senza uovo, perché per il freddo le galline non depongono le uova, ciambellone con uova, raccolte in precedenza, zecche, parola dialettale, castagne sbucciate e lessate, e le immancabili noci e nocciole. Dopo cena si giocava a tombola e a carte. A mezzanotte in punto si andava a Messa e prima di uscire però si metteva un ciocco di legno grosso nel camino e si recitava: ‘U ciocco di Natale ancora brucia e la campana della chiesa sona’”.

“Il 25 e il 31, invece ˗ rammenta Palmira ˗ il menù era più o meno simile: fettuccine fatte in casa, carne, soprattutto di maiale. A mezzanotte del 31 si buttavano dalle finestre gli oggetti vecchi, soprattutto stoviglie e pignatte, messe da parte per l’occasione. Il 5 gennaio, Vigilia dell’Epifania, a sera, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, solo uomini, soprattutto giovani, sfilavano cantando per le vie del paese la tradizionale “pastorella”: bussavano per le case e ricevevano salsicce, vino, dolci, soldi pochi; il tutto per cenare insieme. Sempre la sera del 5 gennaio si gettava nel fuoco del camino, per trarne buoni o cattivi auspici una foglia di ulivo, recitando la magica formula: ‘Parma parmarella che vi è tre volte l’anno, dimmi vero se…’ e si interrogava. Se la foglia bruciava la risposta era negativa, se invece la foglia si rivoltava, si girava, era positiva”.

Un misto di ricordi struggenti e di commozioni continue, perché rivelatrici di un passato che oggi è difficile persino capire fino in fondo, l’Attesa che mi ha raccontato con voce tenera e vibrante Maria Bali di Castelnuovo di Porto, nata nel 1937, grazie alla collaborazione della figlia Silvia.

Nella foto: Maria Bali

“Non c’era niente. C’era solo tutto ciò che potevamo avere noi in campagna. La sera di Vigilia ˗ racconta ˗ si facevano gli spaghetti con il tonno, i broccoli lessi e le frittelle sempre con i broccoli. Mia madre faceva le frittelle di mele e di patate. Si faceva un ‘gran’ piatto di frittelle, tante. Mezzora prima di mezzanotte si andava in chiesa, dove si pregava, si cantava, ci si inginocchiava, in attesa che il prete tirasse il velo per mostrare il bambinello. In Chiesa non c’era il coro come c’è oggi. Si cantava tutti assieme. Eravamo noi, fedeli, il coro. Io ci andavo con i miei fratelli. Era una festa, perciò si andava a Messa, si stava in piazza per un po’ e a seconda di come era il clima della nottata, e se non faceva freddo, si stava a parlottare con le amiche e gli amici e poi si riandava a casa e si seguitava a mangiare le frittelle che erano avanzate. Perché la fame, nel frattempo ti era rivenuta… dal momento che si cenava alle 18. Non è come adesso che mangi alle 20 o alle 21… Prima si mangiava quando i genitori tornavano dal lavoro in campagna. Poi si giocava a tomboletta tra vicini”.

“A Natale, a tomboletta, invece ˗ continua Maria ˗ si giocava a casa di zia, la sorella di mio padre, che aveva una casa grande, con i cugini”. Si giocava con i soldi? “Con quello che c’era! Però ricordo che zia diceva ‘oh, qui ce vole o soldo perché a luce se consuma, eh…’, come per dire che la luce per giocare costava… e quindi, noi, prima di ripartire i soldi per l’ambo, il terno, la cinquina e la tombola, mettevamo da parte il soldo per la corrente. E poi si giocava, segnando i numeri estratti sulle cartelle con il granturco, i fagioli o le lenticchie”.

L’albero di Natale? “Da piccola ˗ mi dice emozionata Maria ˗ non l’ho mai fatto. La vuoi sapere una cosa: io il primo albero l’ho cominciato a fare nel 1962, quando è nato il primo figlio…”.

“Il 25, nonostante le difficoltà, era una festa ˗ assicura ˗ si mangiava il pangiallo come dolce, mica il panettone come oggi. Quel giorno lo mangiavi perché a casa c’era farina, uovo, nocchie e tutto ciò che ti occorreva. E quel giorno, ma solo per quello, ti compravi mezzo etto di caffè e ti facevi il caffè…”.

Regali? “I miei regali erano un mandarino, due arance o una noce, che stavano dentro un pedalino attaccato al camino. Nessun vestito o chissà quale regalo! Ricordo che scrivevo la letterina, indirizzata ai genitori, che si metteva sotto il piatto e che si leggeva tra il primo e il secondo piatto. Ne ricordo una: ‘Caro Gesù bambino, con il tuo ditino, metti un fiore nel mio cuoricino, il fiore azzurro della bontà, benedici mamma e papà’. Papà a quel punto ˗ rievoca Maria ˗ mi prometteva che se io fossi stata buona avrei potuto ricevere un regalino… I regali come li intendiamo adesso io li ho vissuti dopo con l’arrivo dei nipoti. Solo allora…”.

La testimonianza di Maria, con cui chiudiamo questo viaggio nel tempo, è il migliore regalo di cuore e di testa che auguriamo a tutti i lettori: di avere il Natale dentro di noi, sempre, comunque e dovunque.

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