Mary Ellene Chase ha ragione: “Il Natale è uno stato d’animo”. La letteraria americana, da buona educatrice di bambini, ha saputo sintetizzare come mai nessun altro i giorni dell’Avvento. Gli anni in cui lei ha vissuto, dal 1887 al 1973, le hanno saputo far coniare ciò che in effetti è da secoli: la condizione psicologica (e fisiologica) in cui si trova una persona in un determinato momento definisce il momento stesso. Malinconia, solitudine, angoscia, frustrazione, eccitazione…

Il 25 dicembre e dintorni, periodo più emozionale dell’anno, ognuno di noi lo coglie perciò in maniera diversa e lo vive, conseguentemente, in modo differente. Fateci caso: per i bambini è trionfo di festa; per i giovani è piacere di vacanza; per i meno giovani è sì festa ma anche, compiaciuta o rassegnata, malinconia.

La malinconia, appunto. La bile nera, l’umor nero della Teoria degli umori di Ippocrate.

Se per Michelangelo equivale alla sua allegrezza e per Victor Hugo “è la felicità di essere tristi”, Lev Tolstoj la colloca nel “desiderio di avere desideri”. Definizione calzante assai, dal momento che il desiderio è, per sua struttura intangibile, metà sogno e metà nostalgia.

A Natale, dunque, si è più melanconici, più anelanti di utopie, più predisposti alla riflessione, quella che si rincorre e che non guasta mai quando si è più soli con sé stessi in mezzo a tanta compagnia. Natale, in questo, è il più sorprendetene incrocio degli stati d’animo di tante solitudini che, in famiglia o in amicizia, si mettono a tavola per cene, pranzi e svaghi. Il Cinema e l’Editoria sono colmi di film e libri illuminanti in tal senso.

Cresciuto a pane e libri (che magari diventano anche film), ne ricordo uno in particolare che in parecchi dei Natali trascorsi mi ha fatto sincera compagnia: “Un canto di Natale” di Charles Dickens. Non tanto per la storia in sé, che comunque ho imparato a memoria per lettura consunta, ma per le ambientazioni che questo libro mi riusciva a creare attorno. Ambientazioni di luoghi, volti e tempi andati. Presenza di sostanza oramai assente. Ecco: è in quest’assenza che c’è, ad esempio, lo stato d’animo cui si riferisce Mary Ellen Chase. Che è pura malinconia.

Se credere in Babbo Natale è gradevole esercizio di spontaneità infantile, pensare che a Natale tutti si è più sognatori è matura, e inconscia, aspirazione. Perché il giorno dei giorni è tempo senza tempo, in cui lo spazio di vita dipende da noi. Per questo motivo, mi disse, tanto tempo fa, un mio caro amico psicologo, “Natale è la misura di emozioni che intercorre tra un prima fatto di tutto ed un dopo in cui quel tutto diventa inesorabilmente meno”. Far caso alle assenze, per esempio, che in quel giorno si notano più che in altre occasioni di festa, è sottrazione. Di affetti del cuore. E non è cosa di poco conto. Anzi.

C’è chi odia il Natale soprattutto per questo. La stragrande maggioranza però, e giustamente, il Natale lo ama. Lo ama di un amore che è difficile da spiegare. Proprio perché legato agli stati d’animo. Tanti stati d’animo per quanti siamo al mondo. Natale è noi stessi. Sicuro o preoccupato, deciso o inquieto, sereno o agitato, certo o incerto, robusto o fragile, tenero o duro, magico e suggestivo. Come solo Natale sa esserlo. 

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