nocciole tuscia

Per scendere a Roma, da Viterbo, puoi fare due strade. C’è la via più comoda e più veloce, quella che ti fa virare verso Orte e da lì prendere l’autostrada. Oppure c’è una via più lunga ma anche più bella, quella della Cassia Cimina, che costeggia Canepina, va verso il Lago di Vico e poi giù, da Ronciglione. I più coraggiosi, poi, hanno anche una terza opzione: attraversare i cimini e passare per Vallerano e Vignanello, scendere a Corchiano oppure a Fabrica di Roma. È il cuore del Bio-Distretto della Via Amerina e delle Forre, una rete di comuni, associazioni, agricoltori e cittadini, da Faleria a Canepina, che si sono uniti per una gestione sostenibile delle risorse, partendo da un modello biologico di produzione e di consumo. Di tutta la filiera agricola, ma soprattutto di un prodotto: la nocciola.

Famiano Crucianelli, Presidente del Biodistretto della Via Amerina
Famiano Crucianelli, Presidente del Biodistretto della Via Amerina

Sono 25 mila gli ettari destinati a questa coltivazione nel viterbese – ci racconta Famiano Crucianelli, Presidente del Bio-Distretto – con il 10% destinati al biologico. Una produzione che sul mercato ha un costo del 25% più alto rispetto alle nocciole coltivate con metodo convenzionale“. Percorrendo queste strade la centralità della nocciola, anzi della nocchia, nell’economia della Tuscia si capisce bene. Un via vai continuo di trattori e semoventi, filari ordinati di piante, torri di fumo e di polvere, perché avrà pure piovuto ad agosto, ma la terra è comunque arida, secca.

I comuni del Biodistretto della Via Amerina
I comuni del Biodistretto della Via Amerina

Un terreno vulcanico fertile che però, negli ultimi anni, ha aperto un capitolo critico: quello dei fosfiti. “Sono due anni che abbiamo un contenzioso con il ministero – ci spiega ancora Crucianelli – Abbiamo parlato con tutti i sottosegretari che si sono avvicendati alla carica, da L’Abbate a Battistoni. Se con il primo avevamo raggiunto dei risultati, con il secondo invece, nonostante sia viterbese, non siamo riusciti a trovare un accordo. Eppure il problema è molto serio: noi abbiamo un contenuto di fosfiti all’interno non solo delle nocciole, ma anche in altra frutta, che è più alto rispetto ai limiti consentiti in Italia per il biologico. Ma questi fosfiti sono da ricondursi alla natura vulcanica del terreno. Abbiamo chiesto più volte di venire a fare ricerca sul campo per verificare la natura del terreno. Non si è fatto nulla e si continua a non fare nulla. Se un coltivatore biologico non può vendere quelle nocciole, coltivate con metodo biologico, perché allora non dovrebbe passare al convenzionale? È un danno gravissimo“.

La percentuale di coltivazione biologica, infatti, è ancora esigua. E rischia di diventarlo ancora di più vista la presenza e l’egemonia, nel territorio, della Ferrero. “Io voglio essere chiaro: noi non siamo contro le nocciole. Io sono di Gallese, uno dei comuni del Bio-Distretto, qui sono cresciuto, ho passato la mia infanzia, le nocciole fanno parte della nostra cultura e sono un bene di Dio, sono una risorsa vera. Quello che noi contestiamo è il capovolgimento da risorsa a problema, creato dal sistema di coltivazione intensiva e di monocoltura. Eppure sono tanti, e non sto parlando della Ferrero, che hanno usato questo territorio come un limone, da spremere fino all’ultima goccia. La stessa logica delle multinazionali che non sono mai interessate al bene di un determinato territorio“.

Le nocciole, contenute nelle "balle"
Le nocciole, contenute nelle “balle”

Una logica che ha prodotto, innanzitutto, la monocultura. Perché i 25 mila ettari di corilicoltura sono concentrati in gran parte in questi comuni, dove ci sono zone in cui la coltivazione della nocciola arriva coprire l’80% del territorio. “E questo ha comportato un problema: un uso di chimica di sintesi massiccio, intenso. E com’è noto la chimica di sintesi ti fa produrre molto ma sul lungo periodo ha effetti disastrosi per la fertilità del terreno. Il rischio è quello di trovarci, tra qualche anno, di fronte a un territorio che non può più produrre“. Una coltivazione intensiva che si riversa poi sulle comunità di questi territori: “Se noi andiamo a vedere una serie di statistiche troviamo che una serie di malattie, da quelle leucemiche al morbo di Hodgkin abbiano tassi molto alti. A questo si deve aggiungere la proposta di portare qui le scorie nucleari, un’altra battaglia in cui noi siamo in primissima fila“.

Il logo del Biodistretto della Via Amerina
Il logo del Biodistretto della Via Amerina

Infine un terzo problema, quello della carenza idrica: “Queste nocciole non sono coltivate unicamente nelle zone dove sono vocate, dai 300 metri in su, l’area dei Cimini, ma sono state portate fino alla valle del Tevere. Il che ha comportato un uso esponenziale dell’acqua, perché le nocciole senza acqua, al livello del mare, non producono, così per renderle produttive devi irrigare. Effetto immediato: i ruscelli in estate si prosciugano e le falde sotterranee si svuotano“.

Per questo serve un modello sostenibile, per il bene del territorio, delle comunità, dei lavoratori. E per la valorizzazione di un prodotto unico nel suo genere. Le nocchie, si legge sul sito di Bio Nocciola, vengono commercializzate crude e tostate, in granella, in farina, in pasta, e vengono venduti addirittura i gusci, utilizzati per il riscaldamento domestico. “La nocciola è una ricchezza, non solo per gli effetti economici che la sua coltivazione comporta, ma per le sue sostanze nutritive, per le sue facoltà organolettiche, per gli antiossidanti. È un prodotto prezioso e proprio per questo vogliamo conservarlo per le generazioni che verranno.” Per farlo occorre cambiare modo di produrre e di consumare. Mettendo al primo posto il territorio e chi lo vive.

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