Natale

Di Giuseppe Ungaretti

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

 

Si avvicina il Natale. Le strade sono già gremite di luminarie, così come le piazze, i negozi, le case. Si avvicina il Natale. I bambini aspettano il Babbo che porta il suo nome. Si avvicina il Natale. Serenità, gioia e felicità sembrano permeare questo giorno di festa. Ma per qualcuno è la malinconia a regnare sovrana.

E lo fu per il poeta Giuseppe Ungaretti, durante il Natale del 1916, che, di ritorno dalla guerra, trasformò questo sentimento in una poesia proprio dal titolo “Natale”. La tragedia della guerra, infatti, portò al poeta voglia di solitudine, stanchezza fisica e mentale e, per l’appunto, malinconia, quella “mestizia vaga e rassegnata, dolore raccolto e intimo” (Enciclopedia Treccani). Malinconia che si riversò, chiaramente, sulla festa di quei giorni: il Natale, che Ungaretti non aveva alcuna voglia di festeggiare. E come biasimarlo. Lo stato d’animo del poeta si riversa anche sul ritmo della poesia che procede come una sorta di singhiozzo, privo di musicalità e dolcezza, quasi a manifestare quel senso di stanchezza e di tristezza del poeta, accentuato dalla totale mancanza di punteggiatura.

Più in generale, la poesia di Ungaretti  rappresenta una sorta di manifesto per tutti  coloro che portano nell’anima le ferite di un dolore, per tutti coloro che vivono un’esperienza assimilabile a quella della guerra, una guerra personale, intima, interiore, sebbene questi giorni, nell’immaginario comune, siano spesso associati a gioia e spensieratezza.

E allora, questi soldati, non hanno voglia di perdersi tra le strade illuminate delle città, non hanno voglia di addobbare le proprie case con alberi di Natale e presepi, non hanno voglia di fare festa, perché hanno “tanta stanchezza sulle spalle” e non vogliono altro che sentire “il caldo buono” delle proprie case ed essere lasciati lì “come una cosa posata in un angolo e dimenticata”. Soldati che vivono la malinconia del Natale in seguito a un lutto, a una malattia visibile o invisibile, alla solitudine, perché tali ricorrenze amplificano, di fatto, la sofferenza, perché il ricordo di una persona cara, la consapevolezza del dolore, lo stare soli al mondo genera un conflitto interiore che il Natale non fa cessare, ma fa accrescere; non è raro, infatti, che in tali ricorrenze tornino alla mente i ricordi felici dei bei Natali passati, e ce lo ricorda Dante Alighieri, il Sommo Poeta, che non esiste “nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria”.

Eppure, per non farsi sovrastare dalla malinconia, ritrovare quel tempo felice nel dolore è necessario. Come? Una strada è quella di ritornare a essere bambini. Alessandro D’Avenia, scrittore e docente, nel suo articolo “Il regno dei cieli”, scrive: “avvento, il periodo dell’anno che prepara al Natale, è alla radice di avventura: un invito a ricordarsi di nascere, cioè ricollegarsi a quella energia della vita, a quella gioia di creare ed esplorare, che è tipica del bambino. Perché sia il nostro Natale e quello di chi ci sta accanto, possiamo provare a prenderci cura del bambino che siamo o, purtroppo, non siamo stati, del bambino che gli altri sono o, purtroppo, non sono stati”. Perché ritrovare il sorriso, l’innocenza e la purezza dei bambini è forse il miglior regalo che si possa fare a se stessi. Fosse anche per riscoprire la gioia di addobbare un bell’albero di Natale.

E allora, in questo Natale, un pensiero va a tutti coloro che, pur nella sofferenza, vivono queste giornate di festa, con la speranza che il Natale sia da auspicio per la (ri-) nascita di ognuno di loro –e del loro bambino interiore–, il loro secondo di’ Natale, perché come scrive D’Avenia nel suddetto articolo: “come il bambino, nel quale l’energia della crescita è più evidente, anche noi siamo chiamati a nascere del tutto. Se nasciamo una prima volta nostro malgrado, dobbiamo poi nascere poco alla volta per scelta. […] Solo se io oggi nasco di più mi posso liberare dalla paura della morte e quindi del futuro, i dolori del vivere divengono dolori di parto”, dolori di rinascita quindi, che, adagio, si trasformeranno, ancora una volta, nella gioia di vivere .

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