di Italo Arcuri

Alessandra è ucraina. Di Kiev. Vive in Italia da quindici anni. “Ora sto a Roma ma per un po’ di tempo, come sai, ho pure vissuto a Riano” mi dice per telefono. È laureata. Fa la badante. Si occupa dei nostri anziani. “Guardo una coppia di vecchietti di ottant’anni. I figli me li hanno affidati dicendomi ‘trattali al meglio e soprattutto trattali come fossero i tuoi genitori’. E io lo faccio ininterrottamente da sette anni oramai. Li tratto proprio come fossero i miei genitori. E per me che ho, seppur a distanza di poco più di due ore e mezza da Roma, la mamma ancora in vita la cosa non mi è per nulla difficile”.

Alessandra l’ho cercata giorni fa per sapere come stesse la sua mamma in Ucraina e come lei stesse vivendo questa situazione in cui la guerra ha fatto irruzione nella sua terra, nella notte fra il 23 e il 24 febbraio scorso.

“Come vuoi che stia, Italo. Telefono e prego. Passo così le mie giornate da quando Putin ha deciso di farci guerra”. La mamma vive nella città simbolo dell’assedio dell’armata rossa, con la sorella. “Per fortuna i telefonini funzionano ancora. Altrimenti non so cosa avrei fatto. Probabilmente sarei partita. Anche a piedi sarei andata. Il fatto che ci siano ancora le comunicazioni attive mi rincuora e mi fa ben sperare. Mi rincuora perché ho così modo di starle vicino nonostante mille e ottocento chilometri aerei di lontananza. Mi fa ben sperare perché so che in ogni guerra la prima cosa che il belligerante fa è interrompere le vie di comunicazioni fisiche e virtuali”.

L’Italia è il primo Paese dell’Unione Europea per presenza di cittadini di origine ucraina: secondo i dati elaborati dalla “Fondazione Leone Moressa” per l’associazione “Domina”, ci vivono 236 mila cittadini – l’80% donne – di cui 92 mila impiegati come collaboratori domestici regolari (colf, badante o baby sitter).

Io vorrei che anche il mio Paese diventasse finalmente come il vostro. Io mi trovo bene in Italia e per questo spero che l’Ucraina non cada nelle mani di Putin. Sarebbe una sciagura. Un’enorme sciagura. Libertà significa vivere e manifestare il proprio pensiero in totale autonomia, senza padroni o oligarchie che ti dicono cosa fare o non fare”, mi dice Alessandra, quando le chiedo cosa si augura accada per la sua Ucraina.

“L’Europa – continua Alessandra – dovrebbe essere tutta solidale con il mio popolo. In questa guerra di invasione russa non è in gioco solo il valore dell’indipendenza e della democrazia ma anche il sistema stesso di relazioni umane, che si basa sulla dignità delle persone. Quella dignità umana che voi italiani, come nel mio caso, ci affidate quando ci consegnate la cura dei vostri cari. La nostra affidabilità non è servilismo ma sostanza di estrazione territoriale. Di origine. E il fatto che io mi sia ben inserita nel tessuto civile dell’Italia è la dimostrazione di quanto questo sia stato da voi avvertito appieno”.

Alessandra detesta Putin ma non ce l’ha con i russi. “Assolutamente. Come potrei avercela con loro, del resto. Il popolo russo – me lo dice prima in ucraino e poi in perfetto italiano, quasi a ribadire il concetto – è come noi in tutto e per tutto: europeo! E so che anche lì in tanti stanno manifestando per la pace. Io, i russi, li percepisco come fratelli e come sorelle. Io ce l’ho con chi si comporta da despota in quel Paese e pensa di esportare la dittatura ora da noi, in Ucraina, e domani magari chissà… Ho amici estoni, lettoni e lituani che sono preoccupati quanto noi di ciò che sta accadendo. Putin non si fermerà a noi ucraini, ma tenterà di allargarsi ulteriormente nei Paesi baltici. Perché ci considera ‘roba’ sua”.

La “roba” appunto. Quella che fa gola a tanti e che fa dell’Ucraina un luogo economicamente e finanziariamente succulento. “Anche da noi c’è corruzione e degrado. Anche noi abbiamo tanti problemi. Anche noi dobbiamo correggere tante cose che non vanno. Ma ciò non toglie che noi vogliamo decidere in maniera autonoma di noi stessi. Questo è ciò che devono capire Putin e i suoi sottomessi. Io il blu e il giallo della bandiera ce li ho nel cuore”.

“Ora devo andare, Italo. Ho da riprendere il mio lavoro di assistenza. Più tardi sentirò casa e mi informerò di come si sta evolvendo la situazione. Sono giorni di angoscia e di ansia. Giorni in cui il cervello non si ferma nemmeno se te lo imponi. A volte piango, a volte rido. E quando piango e rido penso a mia madre che mi direbbe: Я сумую за тобою. Alessandra la frase me la dice in ucraino. Poi me la traduce. E significa: “Mi manchi”.

 

P.S. Il suo vero nome, Alessandra, mi ha chiesto di non rivelarlo. “Non voglio commiserazione. E poi ho paura. Sì, paura. Non per me, Italo, ma per i miei cari, che stanno lì in mezzo alla guerra” mi ha detto. “Lo preferisco. Scrivi, che ne so, che mio chiamo ‘Alessandra’. Tanto la sostanza non cambia e io, che ho tanta rabbia in corpo, sto più tranquilla”. E io, capendo i suoi timori, l’ho chiamata così in questo scritto. In cui Itaca c’entra alla perfezione.

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