Il 10 giugno 2023 sono 99 anni dal delitto di Giacomo Matteotti, ucciso a Roma sul Lungotevere Arnaldo da Brescia e ritrovato sessantasei giorni dopo a Riano nell’allora boscaglia della Quartarella.

Ci sono persone, fatti ed episodi nella cronaca anche occasionale, non prevista, di una piccola comunità, di una grande popolazione o di un intero Paese, che hanno il sublime potere della rievocazione. La capacità di riavvolgere, cioè, il nastro indietro nel tempo. Fino a rammentare, nella sua interezza, compiuta o meno che sia nella mente di ognuno, periodi della storia che abbiamo vissuto, visto, letto e studiato in un qualche libro, in un documentario o film d’annata, trasmesso in uno sciupato bianco e nero, o sentito raccontare, magari dai nostri nonni. E Matteotti ne è un classico esempio.
Giacomo Matteotti è uno dei personaggi più conosciuti e celebrati in Italia. Lo confermano le vie e le piazze a lui dedicate in ogni dove. Si pensi che nella classifica dei toponimi urbani più frequenti negli 8100 Comuni del nostro Paese, Giacomo Matteotti occupa il settimo posto, con quasi 3.300 citazioni, dopo nomi quali Roma, Giuseppe Garibaldi, Guglielmo Marconi, Giuseppe Mazzini, Dante Alighieri e Cavour. Lo studio fa capire quanto il personaggio e le sue vicissitudini siano parte integrante del patrimonio collettivo della nazione. Il nome di Matteotti, infatti, è tra i primi nell’elenco delle vittime di guerre e imprese patriottiche, di atti terroristici e azioni criminali.

Il clamore provocato dal suo assassinio, infatti, si estese ben presto, dai grandi ai piccoli centri del Paese in tantissime persone semplici e in diversi uomini e donne di Cultura e di Scienza.

Rita Levi Montalcini, che all’epoca dei fatti aveva quindici anni, in un libro autobiografico – “Elogio dell’imperfezione” – dedica ampio spazio al delitto Matteotti, di cui si parlava molto in casa sua. La scienziata, Premio Nobel per la medicina nel 1986, rimane colpita dalla notizia che a smascherare gli sgherri siano stati due «implacabili e arditi» testimoni bambini: Renato Barzotti, «soprannominato Neroncino per la sua pugnacità, e l’amico di dieci anni Amilcare Mascagna» che, avendo visto tutto, avvertono il vicino commissariato di via Flaminia. “Neroncino, infiammato di sdegno […], aveva tracciato sul luogo del sequestro una grande croce rossa, che diventò meta di pellegrinaggio degli amici e ammiratori del deputato socialista. Oggi al posto della croce disegnata dalla mano infantile di Neroncino, si erge una gracile struttura in bronzo dorato a forma di lancia appuntita verso il cielo. Tutti i giorni, andando all’Istituto che dista un centinaio di metri da quel luogo, penso con rimpianto alla sostituzione di quella rozza croce vermiglia del bambino romano, con un monumento non dissimile dai mille che nelle piazze del nostro e di altri paesi ricordano fatti gloriosi o ingloriosi della storia. La croce di Neroncino avrebbe ricordato a noi sopravvissuti il primo atto della resa del paese alla forza bruta e il primo segno tangibile del processo distruttivo che avrebbe portato l’Italia allo sfacelo”.

L’eco delle atrocità compiute sul corpo di Matteotti inorridì anche lo scrittore Leonardo Sciascia, il quale, all’epoca bambino, a Racalmuto, in un suo libro – “Le parrocchie di Racalpetra” – rivelava: “Un cugino di mio padre ci portò in casa il ritratto di Matteotti. Io abitavo con le zie, erano tre sorelle, due di loro non uscivano mai di casa e spesso ricevevano visite di parenti. […] Raccontò di come l’avevano ammazzato, e dei bambini che lasciava. Mia zia cuciva alla macchina e diceva – ci penserà il Signore – e piangeva. Ogni volta che vedo da qualche parte il ritratto di Matteotti immagini e sensazioni di quel giorno mi riaffiorano. C’era il balcone aperto e un odore acre di polvere e di pioggia. Nella ruota della macchina da cucire che girava io infilavo delle strisce di carta per cavarne un ronzio. Quell’uomo aveva dei bambini, e l’avevano ammazzato. Mia zia mise il ritratto, arrotolato, dentro un paniere in cui teneva filo da cucire e pezzi di stoffa. In quel paniere restò per anni. Ogni volta che si apriva l’armadio, e dentro c’era il paniere, domandavo il ritratto. Mia zia biffava le labbra con l’indice per dirmi che bisognava non parlarne. Domandavo perché. Perché l’ha fatto ammazzare quello, mi diceva. Se alla mia domanda era presente l’altra mia zia, la più giovane, che era maestra, si arrabbiava con la sorella – devi farlo sparire quel ritratto, vedrai che qualche volta ci capiterà un guaio. Io non capivo. Capivo però chi fosse quello. Una volta mi portarono alla stazione per vederlo passare, ma non riuscii a vedere niente […]”.

Il tutto a dimostrazione del fatto che, a distanza di quasi un secolo, il corpo di Matteotti, ucciso, trucidato e poi occultato, resta “vivo”, suscitando azioni ed emozioni, entusiasmi e turbamenti. In vista del centenario.

Sponsor